mercoledì 10 luglio 2013

Tra miti e leggende

Gorica Sarajevo"Gli italiani fregano, rubano, sono mafiosi, ciarlatani, nullafacenti." Di fronte ad un'affermazione del genere qualsiasi abitante del "bel paese" si indignerebbe e avrebbe tutte le ragioni del mondo per farlo. Di conseguenza anche Fadila ha tutte le ragioni di indignarsi quando sente parlare dei gitani come di gente sporca, cialtrona, che ruba, che non manda i figli a scuola. Lei, che ha quarantatré anni, lavora sei ore al giorno come pulitrice per un'organizzazione internazionale e guadagna 400 marchi (200 euro) al mese, che arrotonda come può facendo pulizie per le case di privati. Conosce benissimo l'inglese ed è fiera ed orgogliosa di mostrarmi la casetta a due piani (splendente come casa mia non sarà mai - Mauri rassegnati) in cui vive con la madre, il marito e due figli, entrambi regolarmente iscritti a scuola: la più grande, di sedici anni, frequenta la scuola economica e vuole studiare criminologia all'università. Il più giovane, invece, segue le orme del nonno e sta frequentando la scuola di falegnameria e design. Le chiedo come sono i rapporti con gli "altri". Mi dice che non sono facili, che le persone hanno molti pregiudizi nei confronti dei gitani e mi fa l'esempio della figlia che a scuola ha ottimi voti ma che non è ben vista da alcuni professori che si domandano come mai va a scuola, "che tanto tra poco ti sposi". Il marito di Fadila faceva lo stampatore ma ha perso il lavoro, quindi i pochi soldi che lei guadagna devono bastare per tutti. Durante la guerra la sua vecchia casa è stata distrutta e lei ferita.
Gorica SarajevoMa non si lamenta Fadila: è contenta di avere una casa (grazie ad aiuti internazionali, mi dice) e un lavoro, così i suoi figli possono andare a scuola. E io sono contenta di averla conosciuta: è stato un vero privilegio.
Mentre conversiamo la mamma, Šelifa, che non vuole farsi fotografare mi offre un caffè e un bicchiere di succo di frutta. Ha cinquantotto anni e vive da sempre a Gorica. Il marito, il padre di Fadila, è andato alla scuola Hasan Kikić, insieme con Emir Kusturica, che qui è considerato un po' un mito. Proprio dalla scuola elementare Kikić che, a sentire anche gli "altri", è un'ottima scuola, Kusturica ha mosso i suoi primi passi in quel mondo che, poi, sarebbe diventato "Il tempo dei gitani".

Attraverso la stradina e vedo quattro persone che si danno da fare per segare un pezzo di compensato. Chiedo se posso parlare un po' con loro e scattare delle fotografie. "Sì, mi dicono, ma non qui fuori, entriamo in casa." Mi tolgo le scarpe, come fanno gli altri (e come si usa in tutte le case a Sarajevo) e mi siedo per terra, ascoltando le loro storie. In casa (tre camere da letto, una cucina e un bagno) vivono quindici persone, tra la mamma, Nazmija, il papà, qualche figlio e qualche nipote (fate voi il conto, io l'ho perso).
Una delle figlie sa lo sloveno perché vive a Maribor insieme al marito, che lavora asfaltando strade. Mi dice che la situazione della famiglia, a Sarajevo, è pesante: nessuno lavora in questo momento e lei solo ogni tanto riesce a portare qualcosa dalla Slovenia. Nessuna forma di sussidio, nessuna forma di assistenza. La scuola si paga e, non lavorando nessuno, i bambini non ci possono andare. "Come imparano allora a leggere e a scrivere?" domando. "Qualcuno in casa insegna loro", mi risponde Šeribana. In realtà, mi spiegherà dopo Dubravka, un'amica di qui, che conosce perfettamente l'italiano, la scuola elementare è gratuita, ma è necessario pagare quaderni, matite, trasporti, e alcuni non se lo possono permettere. La famiglia, come quella di Fadila, è musulmana ma, a differenza di quest'ultima, è praticante. Le donne non portano il velo, ma tutti vanno in moschea e seguono il Ramadan (fatta eccezione per le sigarette) per tutta la durata del rito. "E i bambini?", domando. "No, loro no. Loro hanno bisogno di mangiare durante il giorno".
Alla mia affermazione "i gitani sono oggetto di molti pregiudizi" uno degli uomini ci tiene a precisare che loro non sono gitani, ma sono rom. "I gitani sono quelli che rubano, chiedono la carità e cose simili, i rom no." Gitani, rom, zingari, la mia testa inizia a pulsare così saluto la famiglia, con il proposito molto chiaro di uscire dalla mia completa ignoranza in materia e di tornare a trovarli prima di ripartire.


Oggi è anche un giorno speciale perchè in casa di Mira si festeggia il compleanno di Hilda, la nipotina, che compie tre anni.
In realtà il compleanno verrà festeggiato domani perché la famiglia non se la sentiva di fare una festa, visto che oggi si commemora il genocidio di Srebrenica.
Anche Mira vive a Gorica (il quartiere dei rom), ha 61 anni e attende la pensione (che arriverà appena fra quattro anni). Non lavora, come del resto gli altri in famiglia, ad eccezione di un figlio, che ha però dovuto spostarsi in Germania una decina di anni fa. Prima della guerra Mira faceva le pulizie e il marito il carrozziere, ma adesso non c'è più lavoro e l'unico sussidio che percepiscono è quello per la bambina. Davanti a una tazza di caffè mi dice che la vita è dura: senza lavoro non si ha diritto nemmeno all'assicurazione sanitaria. La Croce Rossa una volta all'anno porta un pacco, ma questo è tutto quello che ricevono dalla cosiddetta "solidarietà internazionale". Mi mostra la sua casa, dove non mancano divani e poltrone per accogliere gli ospiti, né le stanze da letto, in una delle quali dormono lei e la piccola.
La bimba non va all'asilo perché la mamma può stare con lei, dato che non lavora. "Ma", aggiunge Mira, "i miei tre figli sono andati all'asilo perchè sia io che mio marito lavoravamo tutto il giorno". Sono andati anche a scuola i figli, hanno terminato le elementari (l'equivalente della scuola media italiana). "Sotto la Jugoslavija si stava bene", aggiunge, "c'erano fabbriche, c'era lavoro, l'assistenza sanitaria era per tutti e la scuola anche." "Se trovo una persona che mi parla male della "Federativna", giuro che gli offro da bere fino a ubriacarlo", le dico prima di andarmene. Ridono, lei e la figlia, sapendo perfettamente che non ne troverò nessuno (come non ne ho trovati finora) che mi parlerà male della vecchia Jugoslavija. Non mi resta che salutarle e rinnovare un semplice "tanti auguri Hilda!"

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