martedì 9 luglio 2013

Jagomir

Oggi mi piomba addosso tutta la pesantezza delle storie che ho sentito, dei posti che ho visto e di quelli che non ho avuto il coraggio di vedere. Ma ho un appuntamento con una persona davvero speciale, quindi mi alzo alle 7, bevo caffè bosniaco (schifosissimo perchè ancora incapace di prepararlo comediocomanda) ed esco di casa, non prima di aver controllato tre volte di aver spento i fornelli elettrici e di non aver lasciato sulla piastra ancora calda il pentolino dell'acqua. "Ma chi se ne frega?" Sì, lo so, me lo dico da sola ma faccio davvero fatica a scrivere in questo momento e da qualche parte dovevo pur iniziare.
Comunque, dopo quaranta minuti di camminata in salita arrivo a Jagomir, la clinica psichiatrica di Sarajevo che, adagiata sulla collina e immersa nel verde, assomiglia, in scala ridotta, all'ex manicomio di San Giovanni, a Trieste (una scritta sul tetto di un edificio in rovina riporta l'anno 1916).
Mi riceve il primario, il dottor Ferid Mujanović, un uomo di cuore, si capisce solo a guardarlo nei suoi grandi occhi celesti. E mi conforta sapere che al mondo esistono ancora persone che ti accolgono nella loro casa senza domandarti niente se non il nome e il motivo per cui hai deciso di arrivare proprio lì. Gli spiego, un po' in slovenocroatodiomiperdoniloscempiolinguistico, un po' in inglese, il progetto che sto seguendo e, con molta partecipazione, acconsente.
Ha qualche minuto a disposizione e mi racconta un po' la storia dell'ospedale psichiatrico. Prima della guerra la struttura ospitava circa trecento pazienti. Ora i posti letto sono 70, secondo il modello della nuova psichiatria che (sintetizzando) prevede il ricovero solo in casi effettivamente necessari e per una durata non superiore ai trenta giorni. Nell'ospedale ci sono tre reparti, uno per le donne, uno per gli uomini, e un'unità di cure intensiva, oltre a degli spazi destinati ad attività ricreative, dove i pazienti si incontrano, parlano, ascoltano musica.
Chiedo al medico se conosce Franco Basaglia. Domanda idiota, risposta affermativa.
Nel 1992 i pazienti ricoverati a Jagomir furono cacciati a forza dall'ospedale e spostati a Bjelave, vicino all'ospedale principale di Koševo, in un asilo chiamato "Fiori felici", un edificio, mi spiega il primario, in buone condizioni ed in una posizione da cui era possibile procurarsi cibo e altri beni di prima necessità. Una cinquantina di pazienti cronici, tutti adulti, vissero nella struttura provvisoria, insieme al dottor Ferid e a pochissimi altri operatori per i lunghi anni della guerra, in condizioni che non riesco nemmeno lontanamente ad immaginare.
"I rapporti di vicinato erano buoni", continua il dottor Mujanović, "e capitava anche che i pazienti venissero accolti nelle case degli abitanti della zona."
La dottoressa Amira (anche lei con i pazienti per tutta la durata dell'assedio) aggiungerà in seguito che era vero anche il contrario: la gente del posto andava nella struttura per rifornirsi di acqua, per telefonare, per guardare la televisione.
"La cosa stupefacente", mi dice la dottoressa, "è che in quei quattro anni nessuno di noi si è ammalato, nè fra i pazienti nè fra il personale sanitario". E questo nonostante il fatto che l'unico cibo a disposizione fosse costituito da riso, pasta, lenticchie e mais. "I problemi sono arrivati dopo," mi spiega, "perché il metabolismo non era più lo stesso. Ci ho messo del tempo a normalizzarlo".
Dopo che i pazienti e il personale sanitario furono mandati via da Jagomir, l'ospedale si trasformò in un campo di prigionia, di smistamento, di morte. Una targa, sull'edificio principale dice (mi perdonino i lettori di madrelingua serbocroata per la traduzione): "Per non dimenticare, perché non si ripeta - Questo edificio, conosciuto con il nome di Jagomir, nel periodo 1992-1995, è stato utilizzato dagli aggressori della Bosnia Erzegovina e dai loro collaborazionisti locali come campo in cui i civili di Nahorevo e di altre parti della municipalità "Centar" venivano reclusi e poi uccisi o mandati in luogo ignoto".
Insieme a un altro medico vado a visitare un edificio in rovina, dove un tempo erano ospitati i pazienti e dove, successivamente, hanno piazzato il loro culo gli "aggressori", per uccidere gente o per mandarla al campo di Vogosca (vedasi Witness Says Guards Helped Him Survive Jagomir, che riporta una testimonianza).
Intorno all'ospedale, su per le colline, mi spiega il medico, ci sono ancora probabilmente delle mine e non è il caso di andarci. Gli chiedo se lui durante la guerra, era insieme ai pazienti. "No", mi risponde, "io ero arruolato fra il personale sanitario (nota - dell'esercito croato-musulmano), ma con il fucile in spalla". "Ha conosciuto Radovan Karadžić?" gli domando con una certa esitazione, riferendomi al periodo precedente la guerra, quando Karadžić esercitava come psichiatra. "Come no", mi risponde, "giocavamo a scacchi insieme. Era uno non particolarmente simpatico, nè particolarmente speciale. Uno come gli altri."
Scendendo da Nahorevska e risalendo dall'altra parte della strada si può notare l'ospedale infantile, un edificio che sembra nuovo di pacca. Proprio sotto, quello che resta di qualcosa che assomiglia anch'esso a una struttura ospedaliera, composta da tre/quattro edifici. Intorno, però, solo automobili che salgono e scendono, nessuno a piedi cui domandare. C'è scritto, su uno degli edifici, che è severamente proibito entrare, ma questa volta ho deciso di non scappare. In seguito mi diranno che gli edifici in rovina fanno parte dell'ospedale infantile, che per fortuna era stato evacuato.
Ospedale infantile Sarajevo
Ospedale infantile Sarajevo
Ospedale infantile Sarajevo


Resta per me aperta una domanda alla quale non riesco a dare una risposta: "Come si sopravvive a una guerra?" Le persone che ho conosciuto cercano di dimenticare oppure di raccontare le loro storie, per scaricare il peso che portano addosso. 

Almir

Almir, ad esempio, che ho conosciuto sabato sera, tiene un diario dove scrive poesie
con una grafia così accurata che da sola esprime la bellezza della persona. Questa che riporto è la poesia numero 29, datata 19/07/2013 ore 9.35. Ringrazio tantissimo Zorica per l'aiuto nella traduzione e ringrazio altrettanto Sandra per aver scattato la foto della poesia e avermi quindi dato la possibilità di trascriverla qui.

Maloljetni borci


Bili su dječaci, ali
dobri momci
bez straha su jurišali
maloljetni borci.

Umjesto igre na ulica
a rovu su hrabro stajali
ze iedinu domovinu
svoje živote davali

A pola noći a po dana
sa puškom u ruc
čuvali su Bosno ti
mladi vuci.

Izgubili mladost izgubili
sve od države u zaborav
gube se tako danas žive
maloljetni borci Bosanske Armije

Jedina su pomoć sami sebi
dragi bog što ih s neba
gleda za sreću in tako
malo treba kriško hljeba
i komad Bosanskog neba.

(traduzione italiana)
Erano ragazzini, ma
bravi ragazzi
senza paura sono partiti all'attacco
i giovani combattenti.

Invece che giocare in strada
hanno coraggiosamente innalzato barricate
per una sola patria
hanno dato la vita.

Di notte e di giorno
con il fucile in mano
hanno difeso la Bosnia
questi giovani lupi.

Hanno perduto la giovinezza, hanno perduto tutto
sperduti nell'oblio dello stato
così vivono oggi
i giovani combattenti dell'esercito bosniaco.

In se stessi trovano l'unico aiuto
e in Dio che dal cielo li guarda
hanno bisogno di così poco per essere felici:
un pezzo di pane
e un pezzo di cielo bosniaco.

Remzija

Per Almir non è semplice, come non è semplice per Remzija, di Iljaš, che soffre di sindrome post traumatica e lo conosco all'ospedale di Jagomir. La commemorazione dello sterminio di Srebrenica è stato troppo forte per lui e, di conseguenza, è stato ricoverato nel reparto uomini della struttura.
Prima della guerra lavorava in una fabbrica di automobili, poi è stato arruolato nell'esercito e per quattro anni ha combattuto a Tuzla nel II Korpus, in una brigata di 120 soldati. E' stato ferito e mi mostra le cicatrici sulla schiena e sul piede.
"I miei problemi sono iniziati già durante la guerra", mi dice, "con il rumore degli elicotteri e le granate." "La guerra mi è entrata nella testa".
Remzija ha 56 anni, una moglie e due figlie gemelle di sedici anni, e per tutta la famiglia c'è solo la sua pensione, di circa 300 marchi, più 40 marchi che riceve come aiuto dall'associazione degli invalidi di guerra della Bosnia ed Erzegovina.
Lui non può guardare la tv perché gli fa male, ma mi suggerisce di guardare il film "Bitka na Sutjeski" - una memorabile battaglia durante la seconda guerra mondiale, come quella sulla Neretva. Lo farò, senz'altro, appena torno in Italia.


Abdulah

Un'altra storia è quella di Abdulah, uno dei pochi "veri" artigiani che oramai restano nella Baščaršija, il centro storico della città, che risale all'epoca del governo ottomano. Mi offre un caffè bosniaco e iniziamo a parlare, io in sloveno, lui in bosniaco-serbo-croato-montenegrino o come si voglia chiamare quella che una volta era un'unica lingua e si chiamava serbocroato, come dice Abdulah stesso.
Gli chiedo cosa ne pensa lui del totale menefreghismo dimostrato dalla comunità internazionale durante la guerra. Mi dice, come altri han fatto prima di lui in questi giorni, che tale indifferenza era intenzionale, come intenzionale era l'arrivo di Mitterand a Sarajevo il 28 giugno del 1992 (il 28 giugno è il giorno di San Vito, ricorrenza cara al popolo serbo, che celebra (?) la sconfitta subita nella battaglia di Kosovo polje da parte dei turchi nel lontano 1389). "Perché intenzionale?" gli chiedo. Semplicemente perché in un mondo globalizzato la concorrenza deve sparire e la Jugoslavija unita poteva costituire un serio concorrente.
Gli domando poi cosa pensa del fatto che le donne musulmane portino il velo. Mi risponde che il velo è stata una reazione alla guerra, un modo per ricreare un'identità che era stata distrutta. Può essere, ma c'è qualcosa che non mi convince: la stragrande maggioranza delle donne che indossano il velo in questa città sono giovani e giovanissime. Non capisco. Conosce Trieste Abdulah, e persino Gorizia dove ha partecipato al festival del folklore e dove non ha potuto non notare la scritta "Naš Tito" sulla cima del versante sloveno del monte Sabotino.
Continua a credere, nonostante tutto, nonostante abbia combattuto come volontario durante la guerra, che la diversità sia una ricchezza. E lo dice con la stessa espressione di tutti gli altri uomini che ho conosciuto in questi giorni, l'espressione di chi ha capito forse il senso della vita.
Abdulah è un musicista, ed è anche un artigiano. Lavora il rame, per farne degli oggetti unici: orecchini, vassoi, caffettiere, tazzine, orologi da muro, braccialetti. L'ho visto lavorare per tutto il pomeriggio e ne sono rimasta incantata, forse perché è davvero tanto tempo che non vedo nessuno (cecità mia probabilmente) impiegare le mani per qualcosa che non sia virtuale, in tutti i sensi.


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1 commento:

  1. Bello, grazie delle tue storie. Non mi sento meglio, ma almeno so perchè è stato scritto :
    "fatti fratelli nelle opposte passioni,
    o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
    a essere diversi: a rispondere
    del selvaggio dolore di esser uomini."
    Antonio

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