Afferro al volo la troika (non quella di Madame Merkel & co, ma il tram numero 3), che dalla Baščaršija porta a Ilidža, un quartiere periferico di Sarajevo. Lungo lo stradone che conduce a Butmir solo una signora, che porta con sè due borse della spesa. Cammina piano, con la lentezza dei vecchi, con sofferenza. Le chiedo se vuole un aiuto e lei accetta volentieri. Guardandomi intorno mi accorgo che, a differenza del centro, le case portano ancora i segni evidenti della guerra. "Era tutto distrutto" mi dice la signora. "Adesso hanno ricostruito ma non è più come una volta". Mi mostra la casa dello studente, nuova di pacca, che con il contesto di borgo di campagna non c'entra nulla. Ma va bene così, dice lei.
Dopo circa un'ora di tragitto arrivo nei pressi della casa dalla quale, durante la guerra, era possibile accedere al tunnel, la casa della famiglia Kolar. Tre autobus pieni di turisti stazionano davanti all'edificio. Aspetto, pazientemente, che il luogo si svuoti, almeno un po'. Mi guardo intorno e osservo l'andirivieni degli aerei che partono ed atterrano a Sarajevo.
La casa dei Kolar è a uno sputo dall'aeroporto, saranno 500-1000 metri, non di più. Il tunnel, scavato in tutta segretezza, collegava durante la guerra le due parti libere della città, Butmir e Dobrinja e permetteva alle persone di passare da una parte all'altra, portando cibo e altro materiale (armi incluse). Il bellissimo articolo di Azra Nuhefendić, Il tunnel di Sarajevo, racconta tutta la storia del tunnel della speranza, pertanto non aggiungo altro, se non alcune immagini scattate all'interno, con la schiena piegata e un dolore fortissimo all'altezza dei reni, a significare, forse più di tutto il resto, le sensazioni che si provano nell'attraversarlo.
All'uscita della casa Kolar mi imbatto in Izmal, un signore di 70 anni circa, cui domando il motivo per cui Butmir è stato così bersagliato. Mi dice che il paese era letteralmente circondato dai četnici (le truppe serbe che assediarono Sarajevo dal '92 al '95). Gli spari arrivavano dall'aeroporto (fino alla fine del '92), da Ilidža, il borgo vicino, dalla collina di fronte a Butmir.
Mi congedo da Izmal con un "vse najboljše" (buona fortuna) e un "žal mi je" (mi dispiace). Mi dispiace di cosa? Mi dispiace di non aver fatto niente, mi dispiace che la Bosnia sia stata devastata e non aver fatto niente, mi dispiace di essere stata una stupida ventenne spettatrice di un orrore, senza aver fatto niente. Di questo mi dispiace. E mi dispiace che la comunità internazionale, insieme a me e prima di me, non abbia fatto niente per impedire i crimini che sono stati commessi. Fin da ragazzini ci viene inculcato il senso di colpa per i crimini commessi dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, un senso di colpa che non serve a niente, perché di matrice religiosa e non laica. Un senso di colpa che dovrebbe invece chiamarsi senso di responsabilità e che dovrebbe riguardare non quelli che sono venuti dopo, ma quelli che, come me, e come i tanti tedeschi durante il nazismo, non hanno fatto niente per impedire gli orrori che venivano commessi sotto i loro occhi. Piango perché è l'unica cosa che posso fare in questo momento e quando vedo transitare i trasfertisti della NATO con orologi che sembrano tanto dei rolex, mi vergogno del mondo in cui vivo, mi vergogno di un'Europa incapace (volutamente?) di intervenire in un conflitto che ha massacrato 500.000 persone, stuprato migliaia di donne, causato almeno un milione di profughi. Si, mi vergogno.
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