Sarajevo è una città europea. Sto dicendo una banalità? Forse. Ma forse anche no, considerato che alcuni pensano ai Balcani come a un monolite esotico dove il fratricidio è quasi inevitabile in certi momenti "storici". Niente di tutto questo. Una signora, alla fermata dell'autobus, mi domanda se non ho paura a girare da sola. Ci penso e le rispondo di no. Ho paura esattamente tanta quanta ne ho girando per Trieste. Quando invece mi trovo a Milano o a Roma sono tutt'uno con la borsetta e (forse non dovrei dirlo) nascondo i soldini in un portadocumenti sotto le mutande.
Un piccolo inconveniente, in questo contesto, mi è capitato, ma senza conseguenze. Ero sul tram e parlavo con un amico. Ad un certo punto mi sono accorta che qualcuno stava frugando nella mia borsa. Ad alta voce ho detto "ma cosa stai facendo? Non ti vergogni?" Quando gli altri passeggeri mi hanno sentita nel mio perfettissimo esperanto balcanico hanno subito gridato all'autista di chiudere le porte, perchè il ladro non avesse modo di uscire. Mi hanno suggerito di controllare se avevo tutto e, solo dopo aver accertato che il casino della borsetta (che probabilmente mi ha protetto dal furto) era tale e quale lo avevo lasciato, e aver detto agli altri passeggeri che tutto andava bene, dico solo allora l'autista ha aperto la porta. Mi domando se nel civilissimo Occidente individualista questo sarebbe mai potuto accadere.
Ciò detto, io a Sarajevo mi sento a casa. Sarà forse perché, quando incontro la gente per strada, nessuno mi domanda da dove vengo, se dalla Germania o dall'Olanda (l'unico azzardo è stato la Polonia). Sarà che la lingua non è molto diversa da quella che ho imparato da bambina. Sarà perché molti edifici del centro somigliano vistosamente a quelli che si trovano a Trieste, Ljubljana, Vienna. O più semplicemente perché, come a Trieste, le automobili hanno la precedenza sui pedoni. Non lo so. Certo è che, quando sono arrivata, l'unica differenza che ho notato è stata nella temperatura dell'aria, 8 gradi alle cinque di mattina e che i "cevapcici" sono molto, molto più buoni.
Ed è solo il canto del muezzin, verso mezzogiorno, a ricordarmi che un tempo questa città, diversamente dalla mia, è stata governata dall'impero ottomano. Oggi infatti è venerdì e nella begova džamija (straordinario edificio costruito tra il 1525 e il 1531) si celebra la preghiera. Sia dentro la moschea sia nel cortile antistante gli uomini, inginocchiati su tappeti, pregano. Le donne, pregano anch'esse, ma stanno accanto a me, fuori dalla cinta muraria. All'interno non ne ho vista nessuna.
Un piccolo inconveniente, in questo contesto, mi è capitato, ma senza conseguenze. Ero sul tram e parlavo con un amico. Ad un certo punto mi sono accorta che qualcuno stava frugando nella mia borsa. Ad alta voce ho detto "ma cosa stai facendo? Non ti vergogni?" Quando gli altri passeggeri mi hanno sentita nel mio perfettissimo esperanto balcanico hanno subito gridato all'autista di chiudere le porte, perchè il ladro non avesse modo di uscire. Mi hanno suggerito di controllare se avevo tutto e, solo dopo aver accertato che il casino della borsetta (che probabilmente mi ha protetto dal furto) era tale e quale lo avevo lasciato, e aver detto agli altri passeggeri che tutto andava bene, dico solo allora l'autista ha aperto la porta. Mi domando se nel civilissimo Occidente individualista questo sarebbe mai potuto accadere.
Ciò detto, io a Sarajevo mi sento a casa. Sarà forse perché, quando incontro la gente per strada, nessuno mi domanda da dove vengo, se dalla Germania o dall'Olanda (l'unico azzardo è stato la Polonia). Sarà che la lingua non è molto diversa da quella che ho imparato da bambina. Sarà perché molti edifici del centro somigliano vistosamente a quelli che si trovano a Trieste, Ljubljana, Vienna. O più semplicemente perché, come a Trieste, le automobili hanno la precedenza sui pedoni. Non lo so. Certo è che, quando sono arrivata, l'unica differenza che ho notato è stata nella temperatura dell'aria, 8 gradi alle cinque di mattina e che i "cevapcici" sono molto, molto più buoni.
Ed è solo il canto del muezzin, verso mezzogiorno, a ricordarmi che un tempo questa città, diversamente dalla mia, è stata governata dall'impero ottomano. Oggi infatti è venerdì e nella begova džamija (straordinario edificio costruito tra il 1525 e il 1531) si celebra la preghiera. Sia dentro la moschea sia nel cortile antistante gli uomini, inginocchiati su tappeti, pregano. Le donne, pregano anch'esse, ma stanno accanto a me, fuori dalla cinta muraria. All'interno non ne ho vista nessuna.
L'unico posto in cui mi sento completamente estranea in questa città è Gorica o Crni vrh, il quartiere dei rom. Cerco di non dare troppo nell'occhio, gironzolando intorno, ma è chiaro ed evidente che non faccio parte della comunità. Scambio quattro parole con una signora, e poi chiedo informazioni a un gruppo di uomini seduto sui gradini di una casupola fatiscente. Ma, diversamente dal resto della città, non riesco a stabilire un contatto. Mi pare quasi di disturbare. Allora decido di andarmene. Probabilmente il mio approccio è sbagliato. Questa notte studio, leggo, rifletto e, forse, domani ci riprovo.
Clicca qui per andare alla pagina dedicata a Sarajevo
I tuoi racconti sono emozionanti perche si sente la sincerità e l'umiltà dei tuoi pensieri. A volte non guardiamo di buon occhio i "stranieri" nel ns Paese, forse per alcuni motivi trovati nel quartiere dei rom che hai percepito tu: la chiusura rappresenta un modo di proteggere il proprio vivere, forse quello che anche noi, occidentali e benestanti, in qualche modo vogliamo mantenere, solo in una condizione sociale opposta. Terry
RispondiElimina