Tra passato, presente e futuro
Diceva Edmund Husserl: “Lo sviluppo del futuro riguarda i viventi; è la loro progressiva formazione a creare il futuro. Ma il futuro diviene in base a una costante attività che ha il carattere di una rivivificazione dello spirito dei defunti, attraverso la comprensione delle loro opere nel loro senso originario cioè in base alle formazioni di senso dei pensatori passati...” (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, pag. 513, Net, Milano, 2002).
Certo il pensiero del grande filosofo tedesco è ben più complesso e questa citazione va inserita nella visione che egli aveva della vita umana e della storia, come “costante divenire” che si sviluppa in una “costante intenzionalità”, una vita, dunque, che ha un passato, ha un futuro e ha un “telos” cioè un fine ultimo.
Da questa prospettiva, che ha validità universale, mi sono spesso interrogata sulle sorti del Porto Vecchio di Trieste, tema caro a molti triestini, e non solo. Ho cercato, in questo contesto, e sempre in base agli insegnamenti di quello che fu anche uno dei maestri di Franco Basaglia, di sospendere il giudizio sull'argomento, metterlo tra parentesi, in modo da svincolare la mia coscienza da tutti i pregiudizi stratificatisi nel corso del tempo, primo fra tutti che “il Porto Vecchio” dovesse essere restituito alla città. Lo ammetto, ho creduto ingenuamente a questa favola, come ho creduto alla favola che il Porto Vecchio dovesse essere reso fruibile ai cittadini. Sempre Husserl, a tal riguardo, si interrogava: “possiamo vivere in questo mondo in cui il divenire storico non è altro che una catena incessante di slanci illusori e di amare delusioni?” (op. cit., pag. 36)
Perché parlo di “favola” quando alludo alla “restituzione” del Porto Vecchio alla città? Per rispondere è sufficiente consultare il dizionario etimologico online dove al verbo “restituire” si attribuisce il significato di “Ristabilire, Rimettere nello stato primitivo; Rendere altrui ciò che prima era in suo possesso, vale a dire ciò che ha prestato, o consegnato, o gli fu tolto.” Il Porto Vecchio non è stato prestato, non è stato donato, non è stato preso arbitrariamente, non è stato privato del suo “stato primitivo”. Il nesso, dunque, che sembra così scontato, “Porto Vecchio – restituire – città” è semplicemente falso.
Per ciò che concerne, invece, la fruibilità dell'area ai cittadini si aprono due parentesi, una riguardante il presente, l'altra il futuro. Al momento attuale l'area non è fruibile a chiunque perché, trattandosi di porto, vi hanno accesso, come in qualsiasi altra parte del globo terracqueo, solo le persone autorizzate, sulla base di normative specifiche (comunitarie, nazionali, regionali) che regolamentano le aree portuali. Per farla semplice, non è previsto che la mamma con la carrozzina e il cane al seguito faccia una passeggiata dentro al porto di Amsterdam, di Amburgo, di Koper. Logico, dunque, che non la possa fare nemmeno all'interno delle aree portuali triestine, di cui il Porto Vecchio fa parte integrante.
Per quanto riguarda il futuro, invece, mi riallaccio alla citazione iniziale per sostenere che noi, come esseri umani viventi, nel pensare al futuro, nel progettarlo, non possiamo prescindere dal senso originario attribuito dai nostri predecessori alle opere da essi realizzate. E questo vale per la filosofia, per la letteratura, per la scienza, ma vale anche per i luoghi in cui viviamo.
Trieste è un non-luogo perché non c'è intenzionalità, non c'è quel nesso tra passato, presente e futuro di cui parlava Husserl. Troppi spazi in questa città sono stati scippati del loro passato, sono stati completamente denaturati, a partire dalle numerose piazze che qualcuno in alto, con la complicità del qualunquismo latente di fondo, ha trasformato da luoghi di aggregazione a deserti contenitori di pneumatici. La mia domanda è: vogliamo davvero fare la stessa cosa con il Porto Vecchio? Vogliamo davvero privarlo del significato che gli era stato dato da chi lo ha costruito, da chi poi ci ha lavorato, da chi ci ha vissuto? Vogliamo dunque privarci di un'altra parte del nostro passato e quindi, implicitamente, del nostro futuro?
Per rispondere a questa domanda ho girato in lungo e in largo in alcuni dei magazzini del Porto Vecchio e, senza troppi sforzi d'immaginazione, davanti agli occhi mi si sono presentate le storie, le tante storie del porto; storie che si avvicendano con la profondità coinvolgente di una narrazione che svela l'umanità attraverso piccole cose, come lo sparghert della “vecchia locanda”, il cucinino del custode del magazzino 19, le confezioni di latte in polvere “Famy”, le tomaie degli scarponi “US army”, scarpe “vintage” disseminate qua e là, copriabiti in plastica “made in Vukovar, Yugoslavia”, i vetri delle finestre colorati con grazia ed eleganza di blu, per impedire che i raggi del sole danneggiassero i chicchi di caffé.
Poi mi sono domandata cosa ne penserebbe una qualunque delle migliaia di persone che in porto vecchio hanno trascorso una buona parte della loro vita se sapesse, per ipotesi – qui sì frutto di immaginazione – che il magazzino 19 sarà trasformato in un albergo a cinque stelle con idromassaggio, piscina olimpica, e perché no, campo da golf sul tetto. E cosa penserebbe se le rotaie che conducevano i vagoni ferroviari proprio sotto i magazzini per agevolare e velocizzare il carico/scarico delle merci fossero gettate in discarica per lasciar spazio a piste di roller? Già, cosa ne penserebbe?
La risposta è arrivata dall'Ursus che, con gli occhi stanchi rivolti al golfo, mi ha sussurrato “Io da qui non mi muovo più”.
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