"La repubblica dei matti" di John Foot, Feltrinelli, Milano 2014 - una riflessione sul metodo
Nel prosieguo Hobsbawm chiarisce al lettore, con trasparenza e lucidità, tutta una serie di questioni: il compito dello storico, il periodo oggetto di indagine, l'intento della ricerca, e quindi della pubblicazione, l'origine e il significato del titolo, la tipologia e le fonti utilizzate, la struttura della pubblicazione. Nell'ordine, l'autore osserva che compito dello storico è quello di "ricordare ciò che gli altri dimenticano". (Ibid., pag 15) L'intento de "Il secolo breve", (che copre il periodo 1914-1991 ed è strutturato in tre parti) è di "comprendere e di spiegare perché le cose siano andate in un certo modo e come i fatti si colleghino fra loro". (Ibid., pag. 15) La scelta del titolo è ricaduta su "Il secolo breve" perché "il mondo che è andato in frantumi alla fine degli anni '80 era il mondo formatosi a seguito dell'impatto della rivoluzione russa del 1917." (Ibid., pag. 16). Il significato del titolo risiede nel fatto che "negli ultimi anni '80 e nei primi anni '90 è finita un'epoca nella storia del mondo e… ne è iniziata una nuova". (Ibid., pag. 17) Infine, le fonti utilizzate sono costituite da numerose letture fatte nel corso degli anni, conoscenza, ricordi e idee accumulati da chi ha vissuto nel periodo trattato "nelle vesti di osservatore partecipe", stampa quotidiana e periodica, statistiche (ONU, Banca mondiale, etc…), informazioni tratte da studenti e colleghi.
Ho citato Hobsbawm così ampiamente perché le sue parole introduttive non solo forniscono la chiave di lettura de "Il secolo breve", ma consentono anche di capire con immediatezza le intenzioni dell'autore, i suoi dubbi, il metodo utilizzato e, attraverso la periodizzazione e la scelta dell'argomento e delle fonti, anche la scuola storiografica di appartenenza.
Tali questioni, che potrebbero apparire marginali agli occhi del lettore non addetto ai lavori (abituato oltretutto a trovare i libri di Bruno Vespa e di altri giornalisti fra gli scaffali di storia di molte librerie) sono in realtà basilari perché scopo della storia (detto in breve) è di conoscere e comprendere il passato (o parte di esso) attraverso l'analisi e l'interpretazione dei dati forniti dalle fonti che, con l'ausilio di ipotesi e modelli interpretativi, consentono allo studioso di spiegare gli eventi, le loro caratteristiche e le relazioni con altri eventi, che non appartengono più alla memoria viva.
Tenendo presente queste indicazioni metodologiche di massima (e altre più specifiche) le osservazioni da fare al libro "La repubblica dei matti" di John Foot, pubblicato recentemente da Feltrinelli, sono varie.
Il volume tratta, come indicato nel sottotitolo, di "Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978", con ciò intendendo quel vasto e articolato movimento che tra gli anni '60 e '70 si opponeva all'approccio tradizionale alla malattia mentale e/o al regime manicomiale in vigore e proponeva, con la pratica, soluzioni alternative, fino ad arrivare alla legge 180 del 1978, e alla conseguente chiusura degli ospedali psichiatrici (eccezion fatta per quelli giudiziali, n.d.r.).
Il libro, privo di introduzione, è strutturato in due parti: la prima, intitolata "Gorizia 1961-1968", è quasi interamente dedicata all'esperienza goriziana (11 capitoli su 14, ammesso e non concesso di includervi anche i due capitoli dedicati al libro "L'istituzione negata", curata da Franco Basaglia), ma sono presenti anche riflessioni sui concetti di antipsichiatria, psichiatria radicale, psichiatria critica (cap. 2), sull'analogia manicomio = lager (cap. 5) e sull'esperimento di Cividale condotto dallo psichiatra Edelweiss Cotti (cap. 8). La seconda parte, "La lunga marcia", è più breve ed è composta da 7 capitoli, di cui uno dedicato alla seconda équipe di Gorizia (cap. 18), uno dedicato a Trieste (cap. 20), uno, l'ultimo, alla legge 180 (cap. 21) e gli altri quattro a quelle esperienze (Perugia, Parma, Reggio Emilia, Arezzo) che nell'ambito del movimento di riforma della psichiatria in Italia sono state, secondo l'autore, poco trattate dagli studi pubblicati sull'argomento e da quella che egli definisce la "storia ufficiale".
Come già nel volume "Liberi Tutti" di Valeria Babini (Società editrice il Mulino, 2009), nella ricerca di Foot trovano spazio non solo Basaglia, ma anche altri psichiatri (quali Giovanni Jervis - soprattutto -, Letizia Comba, Domenico Casagrande, Edelweiss Cotti, Agostino Pirella, Antonio Slavich) e politici locali (quali Mario Tommasini, Ilvano Rasimelli, Michele Zanetti), in poche parole i "leader" di quella che il titolo definisce "La repubblica dei matti", dove l'espressione "repubblica dei matti" viene messa fra virgolette.
L'uso del virgolettato, la scelta titolo e il significato dello stesso non sono chiari dato, che l'autore non fornisce spiegazioni a riguardo, ma si limita ad affermare (parlando delle assemblee generali, coordinate dai pazienti, che si svolsero all'O.P.P. di Gorizia a partire dal 1965) che "Qualcuno arrivò a parlare di una "repubblica dei matti" (pag. 116). Una frase, questa, che può anche passare del tutto inosservata considerato che il "qualcuno" non ha un nome, né si evince la fonte di informazioni utilizzata.
C'è da dire, inoltre, che l'utilizzo delle parole "repubblica" e soprattutto "matti" hanno ben poco a che fare con il contenuto del saggio. Questi ultimi, infatti, sono per lo più assenti dalla narrazione, salvo i fatti di cronaca nera, qualche riferimento a "Il Picchio" o la letteratura prodotta dagli psichiatri stessi durante il verificarsi degli eventi (es. L'istituzione negata) o in periodo successivo (es. Non ho l'arma che uccide il leone, di Peppe Dell'Acqua).
Lo studio, che vanta una corposa bibliografia, si focalizza infatti quasi esclusivamente sulle storie biografiche, le opinioni, i contrasti, gli eventi, che hanno avuto come protagonisti gli psichiatri e alcuni amministratori locali "illuminati" (l'espressione è mia) del periodo, in un contesto di riflessione e di riforma a livello internazionale nell'ambito della psichiatria e nel quadro più generale del Sessantotto. Da qui probabilmente la scelta di utilizzare informazioni contenute soprattutto nella vastissima produzione letteraria dei suddetti attori, integrate con alcune fonti documentali e giornalistiche (per lo più incentrate sugli stessi), testi dell'epoca di carattere teorico (Foucault e Goffman, per citare i più noti), letteratura prodotta da psichiatri non italiani (quali David Cooper, Ronald Laing, Maxwell Jones) e fonti secondarie (studi pubblicati sull'argomento in precedenza, come ad esempio quello della Babini).
L'utilizzo di questa tipologia di fonti consente al lettore di comprendere quello che gli psichiatri e politici coinvolti (il cui ruolo fu determinante) pensavano, dicevano, scrivevano, progettavano e facevano, nonché i contrasti interni, le differenze di vedute e di pratiche, i rapporti con case editrici e organi di stampa (questi ultimi non sempre favorevoli al movimento), i fattori che influenzarono le loro scelte (la Resistenza, il Sessantotto, le teorie e le riforme praticate all'estero).
Non consente tuttavia di avere un quadro completo del movimento, essendo del tutto assenti (fatta eccezione per Franca Ongaro e pochi altri personaggi pubblici) altre testimonianze, interne al movimento (infermieri, volontari, pazienti) ed esterne (i cittadini di Gorizia, Perugia, Parma, Arezzo, Reggio Emilia, Trieste, gli attivisti del movimento studentesco o altri). Che sarebbe un po' come scrivere la storia del movimento comunista in Italia avvalendosi quasi esclusivamente degli scritti di Gramsci, Togliatti, Berlinguer e, per dare al tutto un inquadramento più ampio, le direttive del comitato centrale del PCUS e "Il Capitale" di Marx.
Considerazioni generali a parte, non è chiaro, leggendo il testo, se l'autore abbia trascurato altre fonti di informazione intenzionalmente oppure perché tali fonti non esistono proprio. L'autore si limita a constatare che "i resoconti di cui disponiamo sul periodo 1961-1972 a Gorizia - siano memorie a posteriori o scritti dell'epoca - vengono in buona parte dall'équipe stessa" (pag. 49); oppure, per quanto riguarda l'esperienza di Cividale, "siamo costretti a rifarci in larga misura ai racconti dei protagonisti stessi" (pag. 106), accompagnato da un generico "Su Villa Olimpia è stato scritto pochissimo". Al lettore, dunque, non viene fornita una spiegazione convincente, tenuto anche conto del fatto che molti "osservatori partecipi" del periodo sono (fortunatamente) ancora in vita e gli archivi in buona parte accessibili.
In questo contesto, sarebbe stato interessante apprendere, ad esempio, se e dove vengono conservati i verbali delle assemblee organizzate a partire dal 1965 nell'O.P.P. di Gorizia, che da Foot vengono menzionati (pag. 113) facendo però solo riferimento (e non immediato) a due libri editi da Einaudi e curati da Franco Basaglia, "Che cos'è la psichiatria?", e "L'Istituzione negata".
Lo stesso si può dire di quei resoconti di infermieri e medici (che in modo generico vengono citati dall'autore) sui quali l'occupazione dell'ospedale di Colorno "ebbe un effetto lacerante". (pag. 205)
Sarebbe stato anche interessante conoscere ciò che pensava la gente di Gorizia rispetto alla riforma che avveniva sotto i suoi occhi in manicomio. A questo riguardo l'autore, parlando di un celebre fatto di cronaca accaduto nel 1968 (un paziente, in visita alla famiglia, uccise la moglie), si limita a dire che, "l'incidente" "fu un evento che cambiò per sempre il rapporto di Gorizia con i basagliani, e in particolare con Basaglia… Fu il momento in cui molti cittadini di Gorizia si soffermarono per la prima volta a prendere atto di quanto accadeva nel loro manicomio" (pp.153-154). In seguito ad esso, aggiunge, "A Gorizia regnava il panico" (pag. 158) e "La gente di Gorizia scopriva (finalmente) la rivoluzione che le avevano fatto sulla porta di casa: ai più non piacque quello videro." (pag. 159)
Tali considerazioni potrebbero avere una valenza storica, ma solo se fossero documentate, cioè se ci fossero dei riferimenti precisi a "chi?, "dove?", quando?", domande che, oltre al "come?" e al "perché?" ogni storico dovrebbe porsi e alle quali dovrebbe tentare di dare una risposta. In questo contesto è del tutto insufficiente dare voce, a nome dell'opinione pubblica (goriziana nella fattispecie), agli articoli del quotidiano locale "Il piccolo", che a Trieste e Gorizia viene spesso - anche ai giorni nostri - soprannominato in modo non proprio edificante ("il bugiardello") da una parte dell'"opinione pubblica" e che all'epoca era notoriamente ostile al movimento.
Si potrebbe obiettare che il libro parla del movimento della "psichiatria radicale" e non di ciò che ne pensava il cittadino comune (uso questa espressione a titolo di esempio, ma potrei anche estendere il campo a preti, attivisti di sinistra, insegnanti, etc...). Verissimo, non fosse che le testimonianze (orali o scritte che siano) dei "comuni cittadini" costituiscono una fonte preziosa di informazioni che consentono allo storico di farsi un quadro molto più ampio degli eventi e/o del contesto oggetto dell'analisi. Come Hobsbawm rileva, "le interviste con i capi di Stato o con altri statisti e personaggi pubblici sono in genere poco proficue, per l'ovvia ragione che quasi tutte le dichiarazioni di costoro hanno carattere ufficiale. Molto più illuminanti sono i giudizi di persone che possono o vogliono parlare apertamente, soprattutto se non occupano posti di grande responsabilità. " (Il secolo breve, cit., pag. 8)
Ma anche utilizzando solo informazioni fornite dalle dichiarazioni dei "personaggi pubblici" è necessario prestare molta attenzione e non cadere nell'errore di prendere per oro colato quanto in esse contenuto, soprattutto se i dati sono imprecisi. Un esempio: riporta Foot che al momento del suo arrivo a Gorizia, Basaglia "trovò più di 600 pazienti. Due terzi di loro erano di origine slovena, e di questi circa la metà non parlava italiano come lingua madre. Circa 150 stavano nell'ospedale a seguito degli accordi di pace." (pag. 13) I testimoni (Schittar, Slavich, Basaglia) non avevano certo alcuna ragione di mentire, ma lo storico dovrebbe in casi simili provvedere, nei limiti del possibile, a reperire dati precisi (quanti erano esattamente i pazienti?) e ad integrare le informazioni lacunose (quali sono nello specifico gli accordi di pace cui fa riferimento Basaglia?). E non è sufficiente dire che "Gorizia non è stata oggetto di alcun tipo di ricerca rigorosa, tanto che perfino i fatti fondamentali (quando arrivò o se ne andò una certa persona, il numero di pazienti, la presenza o l'assenza di un certo infermiere) sono difficili da appurare e spesso risultano contraddittori." (pag. 51) Perché dire questo significa scaricare su "altri" la responsabilità di non aver condotto una "ricerca rigorosa". Affermazioni del genere sono ammissibili (se fondate) solo in contesti specifici, incentrati sul dibattito storiografico intorno a un determinato argomento.
Tantomeno ammissibili sono certe affermazioni presenti nel saggio, prive di ogni fondamento, in quanto non supportate da fonti. Riferendosi a Gorizia (e presumibilmente agli anni '60), dice l'autore, la "frontiera era pattugliata da guardie armate, che a volte sparavano a chi [dalla Jugoslavia, ndr] tentava di fuggire a Occidente (di solito di notte): i cadaveri venivano rinvenuti la mattina dopo. C'erano posti di blocco permanenti a tutti gli incroci, alcuni a pochi metri dalle mura dell'ospedale psichiatrico." (pag. 22). Non corredata né dai nomi e cognomi dei presunti "cadaveri", né dalla data, né dal luogo (o dai luoghi) in cui questi fatti si sarebbero verificati, né da eventuali fonti secondarie, tale affermazione non può che essere inserita fra i numerosi "si dice che" presenti nel libro. In calce alcuni esempi. [1].
Nel libro sono inoltre presenti alcuni "processi alle intenzioni" (vedasi a titolo esemplificativo il capitolo 14 e, in modo particolare, il paragrafo dedicato a "Morire di classe" [2]) e varie imprecisioni, che sono poco comprensibili per uno storico. Ne cito solo una, relativa ad un argomento noto ai lettori: "Durante la seconda guerra mondiale gli occupanti nazisti deportarono numerosi ebrei dal manicomio ai campi di sterminio (ce n'era uno anche a Trieste)". (pag. 261) Nonostante i telegiornali abusino della parola "campo di sterminio" va detto una volta per tutte che a Trieste, durante l'occupazione nazi-fascista del 1943-1945 fu allestito un campo di transito e di prigionia (dove migliaia di persone di varia nazionalità furono torturate, uccise, o deportate), non però un campo di sterminio: nella Risiera di san Sabba non ci sono mai state le "docce".
Per concludere, il libro di Foot, pur disponendo di una corposa bibliografia, si presenta lacunoso da un punto di vista metodologico, per l'incompletezza delle fonti, per il modo in cui le stesse vengono utilizzate e la frequenza con cui l'autore ricorre a opinioni personali, a volte anche colorite, ("Morire di classe", ad esempio, viene definito "un oggetto di design", pag. 170) senza una base d'appoggio solida. L'assenza di un'introduzione, inoltre, rende la lettura del libro estremamente difficile, soprattutto ai non addetti ai lavori. Tali lacune costituiscono altresì un ottimo spunto per quegli studiosi che decideranno di affrontare (magari quando la memoria non sarà più viva e la storia si renderà quindi più necessaria) un argomento complesso e articolato quale "Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978".
[1] Riferendosi a Franco Basaglia, Foot dichiara: "Molti si lasciavano sedurre dalla sua intelligenza e dalla sua personalità (anche chi non l'aveva mai incontrato). Era carismatico e affascinante, ispirava amore e ammirazione, ma anche paura, invidia e a volte odio… Aveva un forte legame con i pazienti, ma molti gli rinfacciavano di averli abbandonati al loro destino." (pag. 21) La nota 49, relativa a quest'ultima affermazione dice semplicemente "sono molti gli aneddoti sulla sua capacità di comunicare con i pazienti (pag. 306).
L'equipe di Gorizia "si muoveva tra l'ospedale e la casa di Basaglia in centro: era come se fossero degli alieni, e come tali erano percepiti da buona parte della gente del posto." (pag. 54)
"Per molti Gorizia fu quasi una conversione religiosa, una specie di miracolo. Fu come se avessero visto la luce." (pag. 97)
"Non ci furono incidenti violenti legati all'effimero reparto aperto di Cividale, anche se qualcuno parla del suicidio di un paziente. Pare però che la presenza visibile di quelle persone nella cittadina suscitasse le proteste di una parte almeno della popolazione…" (pag. 109)
"Molti protagonisti dell'esperimento goriziano ricordano l'intensità del lavoro, la tensione, i turni lunghi, l'ansia delle notti passate da soli in ospedale. Per l'équipe fu un'esperienza totalizzante. Ai partecipanti, e alle loro famiglie, si chiedeva moltissimo sul piano fisico e su quello mentale. Fallivano i matrimoni, i figli venivano trascurati, la vita sociale era ridotta al minimo, chi si prendeva le ferie veniva guardato con disapprovazione." (pp. 119-120)
"pochi si sono presi la briga di leggere il voluminoso archivio di materiali relativi al movimento perugino negli anni sessanta e settanta… La narrazione basagliocentrica è lineare; più facile ignorare tutto il resto. "(pag. 193)
"Secondo alcune versioni della storia, quando fu presa la decisione di occupare [il manicomio di Colorno] c'erano anche Basaglia e Slavich, ma quasi certamente non fu così." (pag. 205)
Parlando delle due vie di riforma percorse dal movimento psichiatrico "critico" (quella incentrata sul manicomio - Gorizia - e quella invece imperniata sul territorio - Perugia e Reggio Emilia) l'autore afferma che il secondo modello "attecchì soprattutto nelle zone con una forte presenza del Partito comunista: Perugia, Reggio Emilia, Parma - secondo alcuni, anche perché facilitava il controllo politico e favoriva il clientelismo." (pag. 214)
"Pirella creò un suo culto della personalità ad Arezzo" (pag. 248) In seguito alle riforme introdotte ad Arezzo "i pazienti se ne andavano, non si accettavano nuovi ricoveri e i contrasti con la gente del posto erano frequenti." (pag. 255)
"L'immagine di Basaglia santo, profeta e martire è onnipresente nella letteratura e nei prodotti culturali (documentari, film per la televisione, libri, fotografie) usciti dopo la sua morte." (pag. 275)
"I miti e le leggende che circondano la legge 180 sono molti…" (pag. 283)
[2] Il reportage fotografico realizzato da Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati sulla condizione manicomiale, Einaudi, 1969
Questa non è una recensione. E' un processo. Mary Barbara Tolusso.
RispondiEliminaL'attacco è la miglior difesa (in questo caso dell'ideologia basagliana).
RispondiEliminaS. Zagatti.
Questa recensione e una falsificazione del contenuto dal mio libro dall'inizio alla fine, purtroppo. Per esempio, la recensione fa finta di non vedere il capitolo 3 (Leggere e raccontare Gorizia: fonti e narrazioni) e il capitolo 7 “Il Picchio”: voce dei pazienti e “Archivio della rivoluzione” (che parla, per la prima volta, nel dettaglio di una rivista prodotto dai pazienti di Gorizia). Poi, usa mezze frasi (come quello sul Morire di classe) di condannare mio libro. La frase completa e questo: 'Era un oggetto di design, un foto-libro politico e sociologico, un libro da guardare (o dal
RispondiEliminaquale distogliere lo sguardo), non solo da leggere. Oltre a tentare
la rivoluzione nel campo della sanità mentale, i Basaglia (e con
loro Einaudi e Giulio Bollati) lottavano anche per trasformare il
mondo dell’editoria e della propaganda politica. Fu un momento
memorabile nella storia del movimento'. Un recensione falsa e distorta del mio testo. Poi dice che 'gli archivi sono accessibili'. Dove? A Gorizia, per esempio, l'archivio del periodo di Basaglia non esiste. Potrei continuare... Sono scioccato.
John Foot (autore del libro)
Riguardo al capitolo 3: non è molto chiaro perché le uniche fonti (o quasi) provengano solo dall'equipe. Non ce ne sono altre? Le fonti sono inaccessibili? Questo è ciò che non si comprende dalla lettura del libro. “L'archivio del periodo di Basaglia non esiste”. Bene, adesso lo sappiamo e quindi possiamo anche capire, in parte, perché finora “non è stata fatta una ricerca rigorosa”. Modificherò il testo della recensione alla luce di questa osservazione.
EliminaRiguardo al capitolo 7: il capitolo in questione copre 7 pagine che, su un totale di 302, non sono moltissime. Anche qui la domanda è “perchè”? Non ci sono testimonianze disponibili oltre a quelle del Picchio, dell'Istituzione negata (e altra letteratura prodotta dagli psichiatri - parlo non solo di Gorizia) Non era nell'intenzione dell'autore (e lo chiedo senza alcuna intenzione polemica, ma solo per chiarezza e per correggere alcune mie osservazioni) cogliere testimonianze “altre” (psicologi, volontari, etc…)?
La mezza frase utilizzata fa riferimento a “Morire di classe”. Trovo il termine “oggetto di design” colorito e per questo l'ho citato. Aggiungo che questa espressione mi ha colpita, soprattutto perché in precedenza avevo letto anche la seguente frase: “Morire di classe è anche un po' un imbroglio, progettato soprattutto a fini politici e di propaganda” (pag. 170) L'imbroglio starebbe nel fatto che sono state utilizzate immagini di Gorizia rappresentative del passato e non del presente, se capisco bene leggendo le frasi successive? Perché imbroglio? Lo scopo (e lo si evince chiaramente da quanto da Lei citato, dall'introduzione del libro fotografico, dalle parole di Carla Cerati, da quelle di Berengo Gardin – intervista http://www.informatissimafotografia.it/art011.asp) era quello di denunciare una situazione e, in questo contesto, (presumo) sono state utilizzate immagini di un certo tipo: per fornire al lettore un'idea del contesto (non mi sembra un imbroglio). Ma le mie sono mere supposizioni. Sarebbe da chiedere ai due fotografi la ragione per cui hanno ritratto situazioni raffiguranti il passato.
A disposizione per ulteriori critiche e/o chiarimenti. Erika Cei.