Incontro sabato 25 gennaio al Caffé Joyce la regista Erika Rossi, nata a Trieste nel 1974 che, dopo dopo la laurea in Comunicazione, si è specializzata in Audiovisual Media Studies all'Alta Scuola di Comunicazione dell'Università Cattolica di Milano.
Oltre a lavorare come autrice di programmi a Rai Tre, dal 2005 si occupa di documentari a tematiche legate al sociale e ai diritti umani, come “Porrajmos, a forza di essere vento” (2005), “Questioni di Pelle” (2005) e “Navighiamo a vista” (2007).
Dal 2004, infine, collabora come filmmaker col Dipartimento di Salute mentale di Trieste e nel 2012 ha realizzato il documentario “Trieste racconta Basaglia”, sulla chiusura dei manicomi in Italia negli anni settanta. Vincitore del premio “Zone di Cinema” al Trieste Film Festival nel 2012, il film è inoltre stato selezionato in diversi altri festival, a Roma, Napoli, Glasgow, Spalato e Buenos Aires.
Erika, so che, per impegni lavorativi, non hai potuto seguire molto le proiezioni del Trieste Film Festival. Ti chiederei comunque una valutazione dell'evento in termini generali.
Il Trieste Film Festival quest'anno si è riconfermato come l'evento culturale più importante e più significativo che Trieste ospita per quel che riguarda il cinema. Trieste ospita tantissimi festival, ma io sono particolarmente affezionata all'Alpe Adria perché, fin da quando studiavo a Trieste all'Università, io come tanti studenti abbiamo iniziato ad amare il cinema ed il cinema dell'Est grazie ad Alpe Adria, cui abbiamo cercato di dare il nostro contributo come volontari. Quindi sono affezionata alle persone che ci lavorano da sempre e allo spirito che ha sempre animato il festival.
Qual è lo spirito del Trieste Film Festival?
È quello di dare spazio alla cinematografia dell'Est Europa, ad autori nuovi, emergenti, diversi, in poche parole dare spazio a quei film che di solito non ce l'hanno.
Il Festival, che quest'anno ha compiuto venticinque anni, ha sempre mantenuto questo standard, questa intenzione e lo ha dimostrato da subito, con il film di apertura, quello di Tanović, un bellissimo film, che può essere definito radicale, quindi non semplice, non per tutti, anche se è un film conosciuto. Il solo fatto di aprire il festival con questo film è, di per sé, un manifesto.
Inoltre, tutte le sezioni collaterali presenti erano di altissima qualità, come gli “italian screenings” documentari ma non solo, come “Piccola Patria” di Alessandro Rossetto che presto, si spera, uscirà nelle sale. In ogni caso film importanti che noi non abbiamo la possibilità di vedere con facilità nelle sale.
Come mai questo secondo te questo tipo di film e, in modo particolare, i documentari, non trovano spazio nelle sale cinematografiche?
Perché la distribuzione del documentario in Italia non fa sistema. Le sale hanno paura di fare una programmazione più “difficile” perché il mercato dei film, che vengono soprattutto dagli Stati Uniti e dall'Europa, ovvero il sistema delle sale è in gran parte imposto dalle grosse distribuzioni. Perciò, lavorare con prodotti di nicchia è molto rischioso anche perché l'affluenza al cinema è in netto calo in generale, e gli esercenti fanno molta fatica.
In breve, in Italia il documentario non ha mercato nelle sale, anche se adesso è in corso un'inversione di tendenza.
Grazie forse alla vittoria di lavori come “TIR” al Festival del Cinema di Roma e “Sacro Gra” al Festival di Venezia?
Sicuramente Sacro Gra e TIR sono la ciliegina sulla torta di un fenomeno che ultimamente è in atto, perché sono nate tante piccole distribuzioni indipendenti che cercano di far girare i documentari o i film di nicchia attraverso una distribuzione capillare nelle piccole sale d'essai, sparse per l'Italia in numero sparuto, ma non minimo, non indifferente, pronte ad accogliere le novità proposte dai piccoli distributori coraggiosi. Per fare un'esempio, a Bologna c'è una realtà interessante, il festival Biografilm, che da diversi anni d'estate propone una rassegna di documentari ma che poi cerca di fare una distribuzione capillare attraverso il contatto diretto con gli esercenti. Un altro caso è quello del Kino di Roma, un piccolo cinema dove ogni settimana vengono proiettati documentari e film più d'autore o più di qualità. Questi sono solo due esempi, ovviamente. Ce ne sono molti altri.
E per quanto riguarda Trieste?
Rispetto a Trieste potremmo pensare alla battaglia di Isidoro Brizzi, il direttore dell'Ariston, che per anni è rimasto l'unico stacanovista a fare una programmazione che potesse rispondere alle esigenze di un pubblico più attento al cinema d'autore e di ricerca. Sempre grazie a Brizzi e, nella fattispecie, al “Teatro dei Fabbri”, il pubblico triestino ha la possibilità di entrare in contatto con quel cinema “invisibile”, che fatica a trovare spazio nelle sale cinematografiche, quindi con produzioni indipendenti, opere prime, documentari, proiezioni spesso in lingua originale.
Il discorso è riferito all'Italia. In molta parte d'Europa, invece, il documentario è un genere che ha pari dignità rispetto alla fiction all'interno delle sale cinematografiche. Da dove ha origine, secondo te, questa differenza tra Italia ed altri paesi europei? È una questione culturale, è una questione di sensibilità, di educazione al cinema, di finanziamenti?
La differenza nasce dall'insieme di questi elementi. In Germania, Francia e Inghilterra il sostegno finanziario alla diffusione e alla distribuzione di tutto il cinema, incluso il documentario quindi, non si può lontanamente paragonare all'Italia. Inoltre, e questo è il dato più importante, francesi, tedeschi, inglesi, ma non solo, sono molto più abituati ad andare al cinema e ad un cinema che parla la sua lingua originale, senza doppiaggio, cosa che in Italia ancora adesso sembra una cosa un po' da intellettualoidi, o d'essai. Poiché vedere film coi sottotitoli è una cosa normale, il pubblico è quindi molto più aperto, molto più abituato a vedere film che arrivano da tutta Europa in lingue diverse.
A proposito della Francia, quali sono le differenze rispetto all'Italia per ciò che concerne i finanziamenti al cinema?
In Francia il cinema costituisce un motore produttivo per il paese e i finanziamenti che sostengono il cinema sono enormemente più corposi rispetto all'Italia. C'è CNC, il centro nazionale della cinematografia, che sostiene concretamente tanto cinema, non come in Italia dove, per ottenere un finanziamento dal Ministero, il percorso è difficile. Tutta la polemica rispetto ai tagli al Fus è una polemica reale e concreta perché il glorioso cinema italiano degli anni '60 e '70, che dovrebbe essere uno stimolo, rimane tale in tutto il mondo, ma in realtà il cinema italiano è andato a perdersi e produce poco perché non solo non ci sono produttori ma non ci sono distributori e non c'è sostegno.
Parlando di un esempio concreto e cioè del tuo bellissimo film-documentario “Trieste Racconta Basaglia”, vincitore del premio “Zone di Cinema” al Trieste Film Festival nel 2012, da chi è stato finanziato?
“Trieste racconta Basaglia” è un film molto piccolo che è stato interamente finanziato dai fondi regionali, cioè dal Fondo regionale per l'audiovisivo, per quanto riguarda lo sviluppo e la distribuzione, mentre la produzione è stata finanziata dalla Film commission in quanto il film è stato girato sul territorio, che è la condizio sine qua non per accedere ai fondi di produzione della stessa. Vista la tematica affrontata è inoltre stato sostenuto, in termini finanziari, anche dall'Azienda sanitaria.
In generale, invece, come viene di solito costruito un budget? Come viene finanziato un film documentario?
Normalmente un budget viene costruito da fondi regionali, nazionali, produttori, coproduttori e televisioni dei paesi coinvolti. Qualsiasi lavoro filmico deve avere il sostegno dei fondi regionali o nazionali del paese in cui nasce. Questo vale sia per la fiction che per il documentario. Se poi un lavoro ha un'ambizione anche internazionale, se il contenuto e la logistica tecnica del film coinvolgono un altro paese, ci possono essere delle coproduzioni tra più paesi e i finanziamenti, dunque, arrivare dai fondi di più paesi.
Le coproduzioni, oltretutto, rispondono a un'esigenza concreta, visto che un lavoro documentario prevede o implica una lunga ricerca e spesso la realizzazione si può protrarre per lungo tempo.
Qual è il ruolo, in questo contesto, delle televisioni?
Le televisioni possono dare il loro contributo attraverso il cosiddetto pre-acquisto, che consiste nel comprare il film prima della sua realizzazione, perché convince già sulla carta. Se non esistessero i pre-acquisti da parte delle televisioni, la maggior parte dei documentari non riuscirebbero ad essere realizzati.
Partendo dall'idea iniziale per arrivare al prodotto finale, le fasi di realizzazione di un documentario sono diverse: lo sviluppo, la costruzione del budget, la produzione e la post-produzione. Quale di queste fasi è secondo te la più importante?
La fase più importante nella realizzazione di qualsiasi documentario è quella di sviluppo dell'idea attraverso una ricerca che permette poi di arrivare alla fase di ripresa (ndr. di produzione).
Le fasi di sviluppo e produzione però non sono divise, in certi momenti si incrociano, si contaminano l'una con l'altra. Ad esempio, durante lo sviluppo possono essere fatte delle riprese che non saranno quelle definitive ma che possono essere comunque utili per la fase di produzione. La realizzazione di un documentario è, in poche parole, flessibile. Di conseguenza, tutte le sue fasi sono flessibili.
E per quanto riguarda la costruzione del budget e la produzione?
È un po' parallela allo sviluppo anche se, di fatto, è successiva perché più un lavoro è sviluppato, più è facile raccogliere fondi nel momento in cui viene presentato. Per la costruzione del budget bisogna attendere i bandi e il rilascio dei fondi. Solo dopo la costruzione e chiusura del budget si può passare alla fase di produzione vera e propria, per poi procedere alla post produzione. Per questa ragione il tempo di realizzazione medio minimo di un documentario è tre anni. Varia tra i due anni e mezzo e i tre anni.
Sempre per restare in tema, quali sono stati i tempi di realizzazione di “Trieste racconta Basaglia”?
La realizzazione del film ha richiesto tre anni e mezzo, soprattutto perché il budget che avevamo non permetteva di fare il lavoro in continuità. Come autrice per Rai Tre mi sono organizzata a lavorare al documentario nei tempi “morti” che avevo rispetto al mio lavoro. Anche per questo il documentario ha avuto un arco di realizzazione così lungo.
I momenti e i tempi di realizzazione però possono essere superiori...
A seconda del soggetto, le riprese di un documentario possono essere fatte in momenti diversi dell'anno. In linea di massima, ma non c'è una regola, il documentario segue di solito persone, personaggi e situazioni nel loro tempo reale. Quindi ci sono tantissimi documentari che hanno una realizzazione di durata superiore ai tre anni.
Molti documentari che, in questo momento, girano nei festival in Europa sono delle ricerche vere e proprie sul reale, frutto di lavori pluriennali, quindi cinque, sei, sette anni, perché l'autore, il regista segue una situazione per più anni per poterla raccontare nella sua evoluzione, nella sua verità più vera.
I tempi del reale non sono i tempi della fiction. In un film di fiction tu racconti la storia di una vita con tre, quattro scene mentre in un documentario tu segui il percorso di un tuo personaggio e non è che la vita ha colpi di scena ogni giorno.
Cambiando argomento, che importanza ha il trailer nel documentario? Sappiamo che nella fiction il trailer “arriva per ultimo”. Non lo stesso accade invece per il documentario.
Il trailer è in misura crescente uno strumento importante per la produzione. Non è indispensabile, ma avere del materiale visivo sul lavoro che si sta portando avanti, che si chiami trailer, teaser o estratto video, è sempre più importante, soprattutto in fase di presentazione dei progetti ai mercati. Ed è importante perché i possibili interessati a coprodurre o cofinanziare il progetto, come le televisioni, possono farsene un'idea subito. I commissioning editors, cioè quelle figure che lavorano per le televisioni e che hanno il potere di investire nel preacquisto di un lavoro, magari sono innamorati di un progetto sulla carta ma prima di procedere al pre-acquisto hanno bisogno di vedere qualcosa perché devono valutare la potenza visiva del lavoro che sarà fatto.
In questo contesto, ai fini della presentazione di un lavoro, quanto sono importanti eventi come il Festival del cinema di Sarajevo o il Trieste Film Festival. E quanto sono importanti questi eventi come occasioni di incontro per i registi, i produttori, i possibili finanziatori o comunque soggetti interessati alla realizzazione del film?
Direi che sono momenti fondamentali proprio perché sempre di più il festival ospita al suo interno uno spazio di mercato. Quindi non solamente un festival per il pubblico ma un mercato per i cosiddetti addetti ai lavori dove effettivamente, produttori, coproduttori, televisioni, fondi, tutte queste realtà che lavorano insieme nella realizzazione dei prodotti finali possono incontrarsi, condividere, “fare affari”.
Sempre più negli ultimi anni e in tutto il mondo è il sistema festival – mercati che crea il sistema. Non è detto che un produttore non riesca o non possa trovare strade alternative. È molto difficile ma non è impossibile. Quello che conta poi è il prodotto finale. Se tu hai un buon lavoro verrà comunque proiettato, verrà comunque preso ai festival. È chiaro che però bisogna fare i conti con un sistema quindi un sistema – mercato anche se ci sono dei percorsi alternativi.
Nel caso di Trieste come si è svolto questo incontro tra addetti ai lavori? Tu hai partecipato a questo incontro, motivo per cui non hai potuto seguire molto la programmazione cinematografica.
Il termine esatto è “forum di coproduzione internazionale” che, collegato al film festival, è stato organizzato parallelamente dal Fondo regionale dell'audiovisivo e porta il titolo “East meets West”. Quest'anno era alla sua quarta edizione e si è svolto per quattro giorni all'hotel Savoia. È un evento molto importante, sempre più importante per il mercato focalizzato sulle produzioni italiane e su quelle di tutti i paesi dell'area dell'est Europa.
Come si è svolto il forum?
Su una base di oltre 200 domande presentate, che è un buon numero, sono stati selezionati 22 progetti in fasi diverse di realizzazione, ma diciamo comunque in fase di sviluppo, provenienti non solo dall'Italia e dall'Est Europa, ma anche dai paesi del Benelux. Infatti il forum, quest'anno, ha dedicato un focus speciale a quest'area geografica.
Sono stati invitati un numero altissimo di cosiddetti decision-makers cioè i commissioning editors, i distributori, i produttori, i fondi, tutte le persone interessate al prodotto audiovisivo proveniente dalle aree geografiche che ho citato precedentemente.
I progetti selezionati, oltre ad essere stati presentati pubblicamente a un partere di 300 persone, hanno permesso agli autori di partecipare ad incontri individuali, per una discussione più approfondita con i soggetti interessati.
Ma non solo i progetti selezionati hanno avuto visibilità. Il senso di questo evento è la presenza di un pubblico internazionale specializzato che può essere interessato a qualsiasi persona presente, della regione o di quelle vicine. Un momento di mercato e di scambio fondamentale. In questo lavoro il cosiddetto networking purtroppo è un po' l'anima, che sia fatto all'interno del sistema o fuori. Perché da solo non vai da nessuna parte a meno che tu non sia miliardario.
Fra i progetti selezionati c'era il tuo. Ce ne vuoi parlare?
Sì. Il lavoro che ho presentato, e che sto portando avanti ormai da un anno, si intitola “Women on the border”. Questo in realtà è un working title nel senso che non è il titolo definitivo. È un film documentario prodotto dalla Quasar multimedia di Udine nella persona Marta Zaccaron, con cui ho partecipato al forum “East meets West”.
Di cosa parla il film?
“Women on the border” è una storia di confine. È la storia di una donna friulana di 60 anni che, a pochi anni dalla morte della sua anziana madre scopre tra le cose di quest'ultima un diario di cui non aveva mai saputo niente. Un diario in cui la madre aveva riposto tutti i suoi segreti più intimi, la sua esperienza di partigiana, quando era una ragazza ventiduenne e si era unita alla resistenza jugoslava. Attraverso gli occhi della figlia, il film racconta la riscoperta di una madre poco conosciuta. È una storia di oggi che torna indietro, per riscoprire il passato della donna che ha scritto il diario.
Il passato viene riscoperto solo attraverso il diario o anche attraverso i luoghi, come sembra trasparire dal trailer?
Siamo ancora in fase di sviluppo quindi potrebbe esserci una parte che riguarda anche i luoghi che sono stati teatro della resistenza. Però, per come è concepito ora, il passato sarà raccontato piuttosto attraverso archivi, perché il cuore del racconto è proprio la relazione tra una madre e la figlia. L'idea del film è quella di seguire la trasmissione dei valori dal passato all'oggi.
Questa era l'idea di partenza oppure l'hai cambiata in corso d'opera?
L'ho cambiata in corso d'opera. Il punto di partenza è stato il diario, che è un diario molto intimo, con una scrittura quasi poetica. Racconta storie che noi qui della zona siamo abituati a sentire ma da un punto di vista diverso, meno comune, molto femminile, quasi astratto, sulla guerra, sui dolori di quella situazione.
Poi quando invece ho conosciuto la figlia di questa donna e il percorso che aveva fatto per ricongiungersi, diciamo così, con la donna che la madre era stata, allora ho capito che per me era molto più forte e interessante guardare al passato da una prospettiva contemporanea, quindi attraverso gli occhi della figlia. Soprattutto, il mio rapporto con la figlia è diventato molto profondo, quindi penso che la cosa più interessante per me sia riuscire a raccontare, attraverso il film, anche l'animo di questa donna.
Che è una cosa sicuramente molto originale e molto bella. Ho notato, in molti lavori non solo documentaristici presentati al Trieste Film Festival e al Festival del Cinema di Sarajevo, una sobrietà e sensibilità da parte delle donne nel raccontare il reale molto diversa rispetto al mondo maschile. È una mia impressione o forse è vero che gli uomini sono molto più crudi e brutali nel mostrare la realtà, nel rappresentare le situazioni?
Penso che sia una questione soggettiva e personale dell'autore a seconda del suo percorso e del suo intento rispetto al film. Non ne farei assolutamente una questione di genere. È vero che ci sono autori che insistono di più sulla crudeltà del reale ed altri che invece raccontano il reale più per esprimere un loro percorso personale quindi un'idea del reale che loro hanno.
A dire il vero quest'idea c'è sempre ma, a seconda del film l'immagine può essere più forte, quindi più diretta per chi sta guardando o più mediata, ma non è qualcosa che secondo me dipende dal genere dell'autore.
Indipendentemente dal fatto che gli autori siano uomini o donne, ci sono alcuni film, documentari, che approfittano, grazie alla camera e all'utilizzo dell'immagine, della crudezza della realtà, estetizzando situazioni che sono già estreme nella realtà, amplificando la disperazione e la tragedia umana. Io questi film non li condivido e non mi piacciono. E sto pensando a Sickfuckpeople....
Sickfuckpeople è stato, nel 2013, il film vincitore al festival del cinema di Sarajevo nel settore documentari. Un film tecnicamente molto buono e indubbiamente interessante per il contenuto (la vita dei ragazzi di strada in una delle repubbliche ex-sovietiche) ma brutale, crudo...
Sickfuckpeople è un film sicuramente importante perché denuncia una situazione di disagio nell'Ucraina di oggi. Però il modo in cui viene raccontato quel disagio, estetizzando la disperazione dei personaggi, non lo condivido perché è sensazionalismo. Secondo me estetizzare la sofferenza è proprio sbagliato.
Questo approccio alla sofferenza ha origine nella sensibilità individuale o è dettato da motivi commerciali? Le storie più sensazionali, più forti hanno più mercato rispetto a lavori più sobri...
Io non dico che le storie forti non debbano essere raccontate. Dico che c'è modo e modo.
La sensazionalizzazione dunque è una scelta estetica, e non diretta a fini commerciali?
Primo, penso che chi sta dietro alla telecamera deve avere il coraggio di farlo e non è da tutti. Secondo no, è una scelta autoriale, estetica, stilistica. Poi è chiaro che l'immagine più bella, più accattivante sarà recepita meglio. Se però chi guarda il film ha anche un po' di senso critico allora si renderà conto che quella che stiamo vedendo non è fiction ma realtà e che quindi, magari, si poteva scegliere qualcosa di diverso.
Un ultimo argomento mi preme affrontare con te. Qual è la differenza tra fiction e documentario? Quali sono le contaminazioni, quali sono eventuali limiti che separano i due generi? Per esempio il film di Tanović (“An episode in the life of an iron picker”), catalogato come fiction, usa uno stile documentaristico per parlare di fatti realmente accaduti e con interpreti gli stessi protagonisti dei fatti. D'altro canto ci sono altri film, classificati come documentari, che però sono molto più costruiti e assomigliano di più alla fiction. Tu cosa ne pensi?
Penso che la catalogazione o comunque le definizioni di fiction e documentario ci sono e ci sono sempre state. Ma le contaminazioni tra i generi non sono cosa recente anche se può sembrare così adesso, in Italia, perché abbiamo tanti esempi. Però è qualcosa che nel cinema europeo risale agli anni '70.
Adesso c'è sicuramente una spinta verso la contaminazione dei linguaggi, come appunto nel caso del film di Tanović, dove c'è un fatto reale riproposto nella sua verità però in un sistema produttivo di fiction, di finzione. Quindi la storia è reale, i protagonisti hanno interpretato se stessi, ma il film è una fiction nel senso che non ha seguito il fatto reale nel momento in cui accadeva.
D'altro canto, Sacro gra è un classico esempio di cinemà veritè in cui l'impianto drammaturgico assomiglia alla fiction, perché i documentari di oggi sono storie di persone e di personaggi. I protagonisti, per quanto vivano la loro vita reale, sono seguiti dal regista come se fossero dei personaggi. Sono di fatto delle storie che quando passano attraverso il montaggio noi le viviamo, le vediamo quasi come fossero delle fiction.
Quindi la classificazione tra fiction e documentario persiste nelle sezioni dei festival, ma la contaminazione è totale, nel senso che in realtà il linguaggio è uno ed è quello del cinema. È chiaro che nella fiction ci sarà sempre una sceneggiatura ma, ora come ora, se l'autore ha quell'intento la sceneggiatura è più un canovaccio o comunque uno strumento che è lì pronto per essere smontato, perché la spontaneità della realtà spesso e volentieri supera il reale. E un autore che è attento alla rottura di certi schemi utilizzerà il reale a suo favore.
D'altro canto, per un documentario invece la situazione reale ha tante volte bisogno di piccole chiamiamole così spintarelle che sono molto vicine alla costruzione filmica e quindi di finzione. Vedi il film bellissimo di Carlo Zoratti, “The special need”: la storia e il personaggio che lui segue sono reali ma alcune situazioni sono costruite di modo che il tema del film possa stare dentro ad un percorso narrativo che possa essere seguito nel corso di un'ora e mezza di proiezione.
La realtà, in ogni caso, è sempre una risorsa, sia per chi fa fiction, sia per chi fa documentario.
Secondo te c'è un limite a questa costruzione, a queste spintarelle come le hai chiamate tu?
Probabilmente troverai altre persone che ti dicono di sì, che ci sono dei limiti. Io non la vedo così. Il senso è quello di arrivare al cuore e alla mente delle persone, a prescindere se un lavoro è in parte costruito e in parte reale. È l'idea a monte, quella di partenza, che dev'essere onesta, secondo me.
Brava Erika e Brava Erika! :-) bella e interessante intervista! Terry
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