L'ultima produzione dell'Accademia della Follia, "Io sono Dio e non voglio guarire", in scena il 25 luglio 2014 in piazza Verdi a Trieste, costituisce un'indubbia occasione per riflettere su alcuni temi di indubbio interesse e controversi, quali psichiatria, follia, normalità.
Sulla psichiatria non ho pregiudizi, non ho convinzioni, ho solo forti dubbi dettati sia dalla lettura di Foucault e di Basaglia, sia da una mia naturale idiosincrasia per tutte le forme di potere, sia dal constatare che troppe persone che conosco sono finite in cura, anche molto giovani, presso un Dipartimento di salute mentale (Gorizia, Trieste, Milano, non ha importanza) e non ne sono più uscite. Poiché, tuttavia, so di non sapere, mi astengo da qualsiasi giudizio e lascio volentieri la parola a chi ne sa più di me, quindi al cast e allo spettacolo
Io sono Dio e non voglio guarire.
Invece, per quanto riguarda la follia, e il suo rapporto con la Ragione, alcune convinzioni le ho maturate e le condivido, nella speranza di suscitare critiche, ulteriori riflessioni e/o spunti di riflessione.
Come Michel Foucault ha messo in evidenza nel suo "Storia della follia nell'età classica", non in tutte le epoche la follia è stata vista in contrapposizione alla Ragione. Nel Rinascimento, ad esempio, i filosofi la consideravano come "una delle forme stesse della Ragione". Solo a partire dal XVII secolo la follia è stata vista come antagonista della Ragione e tale stigma le è rimasto impresso fino ad oggi, in virtù del fatto che l'Occidente non si è liberato (e non ha nemmeno intenzione di farlo) dell'eredità pesante del razionalismo cartesiano che considera la Ragione come facoltà completamente disgiunta e persino avversa all'apparato sensoriale e cognitivo dell'uomo, protesa alla ricerca di verità universali e assolute (e per questo coercitive). In tal modo la Ragione si riduce a "creatura fittizia, incorporea, priva di sensi, abbandonata a se stessa… ancella della scienza, della conoscenza organizzata" (cit. Hannah Arendt, La vita della mente, il Mulino, 2009, pp. 87, 131), mero strumento in vista di un fine.
In quest'ottica, che vede coincidere di fatto i processi di pensiero con il mero ragionamento di senso comune e la ricerca di conoscenza ad esso proprio, la follia non può non essere che vista come avversaria per eccellenza della Ragione.
Se però sospendiamo il giudizio, come suggerivano di fare Edmund Husserl e il suo "allievo" Franco Basaglia, ci rendiamo conto dei limiti di questo tipo di approccio. Innanzitutto, il termine "follia" non trova nel dizionario un degno contrario, dal punto di vista etimologico e semantico. Sanità, normalità, ragionevolezza, sono tutte voci che trovano la loro antitesi più propria, rispettivamente, in "malattia", "anormalità", "irragionevolezza", non nella follia.
Curiosamente nemmeno la parola "pensiero" ha un degno antagonista e le proposte dei dizionari in tal senso fanno quasi sorridere: "disinteresse", "indifferenza", "menefreghismo", "azione", "atto", "gesto". La follia, in ogni caso, non compare mai come antitetica al pensiero.
Avevano quindi visto giusto i filosofi rinascimentali, quando sostenevano che la follia "è parte della Ragione"? Lungi dal voler rispondere in modo definitivo e categorico al quesito, è indubbio che pensiero e follia hanno dei punti in comune che vanno ben oltre il "Dizionario dei sinonimi e contrari".
Innanzitutto, alla pari del pensiero la follia è invisibile. Le manifestazioni esterne, spesso dal risvolto tragico, della follia non possono essere confuse con la follia stessa perché, lo dice la parola stessa, di manifestazioni si tratta, esattamente come la presente riflessione scritta, manifestazione di un'attività di pensiero, non coincide con il pensiero stesso.
Conditio sine qua non affinché il pensiero (il dialogo interiore tra me e me) si metta in moto è costituita dall'immaginazione, che trasforma un oggetto visibile, percepito attraverso i sensi, in immagine invisibile, atta ad essere immagazzinata e poi rielaborata dalla mente, nel momento in cui tale oggetto si pone al centro della sua attenzione attraverso il ricordo. In questo contesto il pensiero, al pari della follia, è "fuori dell'ordine, non solo perché arresta tutte le altre attività così indispensabili alle faccende del vivere e del sopravvivere, ma perché capovolge tutti i rapporti ordinari: ciò che è vicino e appare direttamente ai sensi è adesso distante, ciò che è lontano è effettivamente presente. Nell'atto di pensare io non sono dove sono in realtà: non mi circondano oggetti sensibili, ma immagini invisibili a chiunque altro." (Hannah Arendt, cit., pag. 169)
A livello letterario la follia è stata spesso associata alla morte. La celebre "nave dei folli" (Foucault, op. cit.) che nel Medioevo portava i "matti" da una città all'altra simboleggiava il passaggio nell'aldilà, tema caro agli scrittori dell'epoca (Dante, per simboleggiare il trapasso delle anime dei dannati all'Inferno utilizzò anch'egli gli elementi dell'acqua (il fiume Acheronte) e del traghetto, guidato da Caronte). Similmente, fino ad almeno Schopenhauer esiste l'idea di un'affinità tra filosofia e morte e per molti secoli, come rileva Hannah Arendt (op. cit.) si ritenne che la filosofia insegnasse agli uomini a morire.
La follia, al pari del pensiero, è indifesa rispetto agli argomenti del ragionamento razionalistico che scarta le realtà sensoriali e cognitive dell'uomo a favore di verità matematiche, tendenti a dare una spiegazione (non il significato) assoluta ed inequivocabile a tutto ciò che accade.
Pensatori e folli sono attori che partecipano in prima persona ad uno spettacolo, rispettivamente quello del pensiero e quello della follia, a differenza degli spettatori che assistono e sono deputati a formulare giudizi e a "comprendere" la verità di ciò che hanno visto.
Qualcuno potrebbe obiettare che, a differenza della follia, l'elemento che contraddistingue il pensiero è la coerenza. La coerenza però rispetto a cosa? Si può davvero dire che il folle sia incoerente perché l'associazione di immagini e/o parole nella sua mente si discosta dal percorso logico "standard"? E lasciare che le immagini, metafore ricavate dal linguaggio dei sensi, si dispieghino liberamente, per analogia, senza magari l'utilizzo della parola può essere definito folle? Se la risposta è sì allora i poeti, i filosofi, o i cinesi dovrebbero essere tutti considerati dei folli. E che dire dei tanti che parlano con Dio e che da Dio vengono ascoltati e consigliati?
Non voglio con questo né sostenere la coincidenza tra follia e pensiero, né tantomeno oscurare il risvolto tragico della follia di cui siamo stati tutti testimoni almeno una volta nella vita. Voglio semplicemente affermare che la follia, esattamente come il pensiero, è un aspetto della condizione umana, della "vita della mente", a differenza della "normalità", un'astrazione conoscitiva che trova applicazione in diverse sfere del sapere, quali chimica, statistica, matematica, medicina.
Normale deriva dal latino norma, squadra, strumento che serve a tracciare linee e prendere misure. Rispetto all'originario significato etimologico il termine ha subito nel corso del tempo delle variazioni semantiche e viene correntemente utilizzato per indicare qualcosa di riferibile alla norma, alla consuetudine, qualcosa di regolare, usuale, abituale, non eccezionale. Ma regolare rispetto a cosa? Non eccezionale rispetto a cosa? Rispetto alla norma, ovviamente, cioè quella gamma di valori considerati accettabili, che una o più persone hanno fissato a tavolino sulla base di ragionamenti di senso comune.
La follia, dunque, uscendo dal "range" di valori definiti come accettabili da un gruppo (rappresentativo della maggioranza) viene comunemente considerata antitetica alla normalità.
Tuttavia, opporre un aspetto della condizione umana a un'astrazione conoscitiva, è non solo semanticamente sbagliato ma estremamente pericoloso, perché porta e ha portato all'esclusione o, nei casi peggiori, all'eliminazione fisica di tutti quegli elementi considerati "anormali": nel corso dell'operazione "T4", condotta in modo sistematico tra il 1940 e il 1941 dal regime nazionalsocialista, furono sterminati in Germania più di settantamila "degenerati", vale a dire malati di mente, tubercolotici, handicappati, disadattati di varia natura, perché erano considerati "vite indegne di essere vissute".
Senza arrivare alle aberrazioni nazionalsocialiste, ogni epoca ha adottato le proprie misure di esclusione nei confronti di coloro i quali "non rientravano nella norma" e ha creato apposite strutture come, a partire soprattutto dal XVII secolo, le case di correzione, i manicomi, i cottolenghi che, sotto le mentite spoglie dell'assistenza ai bisognosi, costituiscono in realtà "il terzo stato della repressione" (Foucault, op. cit.) e rispondono all'unica esigenza di tenere sotto controllo e alla larga dalla società civile tutti gli elementi di disturbo.
La legge 180 ha avuto in Italia l'indubbio merito di chiudere definitivamente una delle strutture di repressione più aberranti, cioè il manicomio. E la società civile ha assunto, con gli anni, un atteggiamento in apparenza diverso nei confronti di quelli che essa stessa ha definito "anormali": gli handicappati sono diventati "diversamente abili", i ciechi "ipovedenti", i sordi "ipoudenti", i folli "persone affette da disturbo psichico". E a queste persone ha anche offerto la possibilità di essere integrate nel mondo del lavoro attraverso, ad esempio, i contratti di borsa lavoro.
Siamo però sicuri che tutto ciò costituisca un cambiamento di mentalità? Non si tratterà piuttosto di uno sforzo teso a pulire le coscienze della maggioranza o, forse, più semplicemente, a soddisfare l'interesse del sistema capitalistico, lo stesso che ha guardato favorevolmente sia all'abolizione della schiavitù negli Stati Uniti alla fine dell'800 (lo schiavo costava molto di più di un salariato) sia alla Rivoluzione femminista negli anni '60 (la donna a casa ad assistere gli anziani, curare i figli, tenere a posto la casa era improduttiva)?
Qualsiasi sia la risposta, la mia conclusione è che l'atteggiamento di fondo nei confronti degli "anormali" non sia in realtà cambiato e che le forme di esclusione permangano, non solo in relazione alla follia. Prendiamo ad esempio la Direttiva del 27 dicembre 2012 del MIUR, finalizzata all'inclusione scolastica di alunni con bisogni educativi speciali (BES). Cito testualmente: "In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse". In breve, ai bambini poveri, handicappati, molto vivaci (il termine in uso è affetti da deficit di attenzione e iperattività), stranieri viene incollata l'etichetta BES e in virtù di quest'etichetta vengono trattati diversamente dagli altri, con la conseguenza di sentirsi diversi dagli altri e di essere percepiti come dei diversi (nell'accezione negativa del termine).
Analogamente, i folli, bollati con una delle svariate etichette diagnostiche del DSM-5 (che include per inciso il deficit di attenzione e iperattività) subiscono spesso un trattamento economico diverso nel mondo del lavoro: 240 euro al mese (cifra media delle borse lavoro, che corrisponde a tre euro all'ora) per un lavoro part-time è meno della metà di quanto percepirebbero se fossero regolarmente assunti dalla ditta o ente che si avvale della loro collaborazione. Ciò non sarebbe "atipico" se le borse lavoro durassero il tempo necessario affinché la persona impari un mestiere (nel mondo moderno, a prescindere dal grado di "normalità" della persona, vanno molto di moda, soprattutto in certi ambienti, il volontariato e altre forme di lavoro non retribuito). Diventa atipico nella misura in cui vengono prorogate di anno in anno per due, cinque, dieci anni. E il sospetto che qualcuno se ne approfitti permane.
Hannah Arendt sosteneva che l'opposto del pensiero non fosse la stupidità ma la malvagità ("la banalità del male"). Io condivido questa valutazione e aggiungo che il contrario di cultura non è l'ignoranza ma il pre-giudizio che, nel contesto dell'argomento trattato, si traduce in stigmatizzazione, l'utilizzo di etichette preconfezionate da parte della società per identificare i soggetti che potenzialmente potrebbero costituire un problema. In questa luce dev'essere interpretata la confusione che si fa, intenzionalmente o meno, tra aspetti della condizione umana (come la follia) e astrazioni/costruzioni conoscitive (normalità, malattia mentale).
Finché, da questo punto di vista, non ci sarà sufficiente consapevolezza potremo continuare a chiamare gli handicappati "diversamente abili", perché siamo politically correct e anche un po' radical chic, ma continueremo a considerarli come degli anormali, dei diversi, perdendo di vista il fatto che ogni singolo essere umano è diverso dall'altro e che quindi la normalità semplicemente non esiste.