martedì 18 ottobre 2016

Ilva Football Club di Fulvio Colucci e Lorenzo D'Alò

Appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte”, disse lo scrittore colombiano Nicolas Gomez Davila. E “Ilva Football Club” di Fulvio Colucci e Lorenzo D'Alò, edito da Edizioni Kurumuny, è, senz'altro, un libro da ri-leggere.
Essenziale, come i racconti di Dino Buzzati, elegante come la “Bella estate” di Cesare Pavese, intenso come i romanzi di Pierpaolo Pasolini, il libro dei due giornalisti della Gazzetta del Mezzogiorno dipinge la storia del quartiere Tamburi di Taranto, attraverso gli occhi di tanti atleti, soprattutto operai, legati dalla comune passione per il gioco del calcio, legati altresì da una tragedia umana di proporzioni incalcolabili che porta il nome “Ilva”.
Senza appello il giudizio che il lettore formula, al termine del romanzo, nei confronti dello stabilimento siderurgico di Taranto, il più grande d'Europa, che da tempo è sotto i riflettori per un disastro ambientale prodotto esclusivamente dalla mano dell'uomo.
Una condanna morale, resa definitiva dal sapiente uso, da parte degli autori, di immagini linguistiche che, nella descrizione dello scenario, non lasciano spazio al dubbio. “La fabbrica sembra un plotone di esecuzione, le ciminiere fucili puntati al petto.” E ancora: “L'acciaieria, attaccata al rione, non dorme mai e ha un respiro come rumore di bombardamento. Sembra vegliare il quartiere, ma in realtà il suo alito sprigiona tutto l'inquinamento che ha in corpo, un corpo dalle viscere profonde e putride.”
Tale condanna è resa assoluta nel momento in cui ci si allontana dallo sfondo per avvicinarsi all'Ilva football club, una squadra ideale "di undici campioni ricostruita mettendo insieme le 'figurine' di due generazioni che a Taranto hanno lasciato gli anni migliori della vita sul terreno del campo sportivo Tamburi.”
Qui il linguaggio si fa più delicato, indice di una sensibilità propria di chi certe vicende le ha viste molto da vicino o di chi ha una profondità d'animo tale da consentirgli di raccontare il dolore degli altri, senza scadere nel pietismo o nel sensazionalismo.
Delicato però non significa politically correct: il cancro viene chiamato con il suo nome e non con vuote espressioni molto in voga: ideali, certo, per la finzione, non altrettanto per descrivere la realtà di una fabbrica e di un quartiere in cui si continua tutt'oggi a morire per i fumi e le polveri tossiche prodotte dallo stabilimento.
I primi a pagarne le conseguenze sono gli operai, come Nuccio Capozza, che giocava nella Polisportiva Jonica come attaccante e che, durante una partita, dopo aver colpito la palla di testa "sente qualcosa di strano, un senso di smarrimento. Il primo sgambetto del tumore al cervello." O come Pasquale Pinto "il più grande poeta operaio italiano", che invano ho cercato nelle antologie scolastiche e universitarie. O come Berto Pugliese, "che costruì il siderurgico entrando ogni mattina in fabbrica dall'ingresso del cimitero."
Tutti questi operai, insieme agli altri che compaiono nel libro di Colucci e D'Alò, non ci sono più. A far loro compagnia molti abitanti del quartiere Tamburi e una rondine che un pomeriggio d'estate non fece in tempo ad accorgersi del pericolo che aveva davanti.

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