Mi trovo a disagio a pubblicare sul blog queste foto, soprattutto perché, essendo nata e vissuta a Gorizia, non avrei mai voluto ritrovarla a distanza di tempo, in uno stato di degrado e abbandono che mi ha colpito profondamente. E questa è solo una parte, non avendo potuto accedere alle caserme, ai negozi, ai capannoni industriali abbandonati e a case diroccate, di cui non si sa nemmeno che fine abbia fatto il proprietario.
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lunedì 30 settembre 2013
Gorizia, una città al confino
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mercoledì 25 settembre 2013
Lister - La sartoria
Non so voi, io ho smesso di contare già da tempo il numero di ombrelli che ho distrutto nelle giornate di bora scura a Trieste. Ombrelli che ho sempre buttato via senza alcuna esitazione, solo con un po' di fastidio per i soldi buttati letteralmente nel cassonetto. Non avrei mai immaginato (limite mio, mi rendo conto) che di un ombrello rotto ci si potesse fare qualcosa. Pino e Carla, entrambi soci lavoratori della Cooperativa Lister, mi spiegano, con mia grande meraviglia e stupore, che, invece, gli ombrelli distrutti dalla bora possono essere decostruiti e riconvertiti. Marianna, molto gentilmente, mi mostra e mi spiega come si fa: una volta liberata dal telaio, la stoffa dell'ombrello viene scucita punto per punto con una sorta di piccolo “uncinetto”. Poi viene lavata, misurata, tagliata in varie parti e, solo successivamente, ricomposta dai sarti e dalle sarte con le macchine da cucire, per dare vita a aquiloni, mantelline per bambini, borsette. Da profana capisco bene che il procedimento non è semplice e che richiede una cura e attenzione notevoli.
In sartoria, oltre agli ombrelli, si riciclano tutti i capi di abbigliamento quali jeans, cravatte, cappotti, giacche, camicie, nonché accessori (borse, cinture, cerniere, bottoni...) ed arredo (tendaggi, campionari, fodere, …) per farne prodotti nuovi, unici: trousse, portaocchiali, borsette, custodie per iPhone, etc....
La sartoria (che impiega attualmente dieci persone con contratti di lavoro dipendente o borsa lavoro) svolge anche un servizio riparazioni ed è molto impegnata nel campo della formazione. In particolare, in sede si organizzano corsi di piccola sartoria a vari livelli (il corso base parte il 3 ottobre!!!) e corsi con le scuole, durante i quali - mi racconta Pino - ai bambini vengono insegnati il rispetto per l'ambiente, la raccolta differenziata, la gestione del surplus in modo creativo, attraverso la raccolta degli ombrelli e la trasformazione degli stessi in spaventapasseri da davanzale.
Infine, sempre per quanto riguarda la formazione, nel 2013 e in collaborazione con l'Enaip, sono stati organizzati, nel carcere del Coroneo corsi di piccola sartoria e riciclo materiale tessile che hanno coinvolto uomini e donne, nonché un corso di tappezzeria rivolto agli uomini.
Io mi fermo qui, perché ho un impegno importante: guardare dentro ai bauli, fare una cernita, lavare "gli stracci vecchi", farli asciugare e poi impacchettarli per portarli venerdì mattina al padiglione M dell'ex o.p.p. E voi?
Clicca qui per saperne di più sulla sartoria Lister
Ubicazione:
Trieste, Italia
martedì 24 settembre 2013
Lister - La maglieria
Entrando nel “reparto” maglieria della cooperativa Lister due cose colpiscono subito: la luce che inonda la stanza da ogni lato, e una sensazione di pace e serenità che mi è capitato raramente di trovare nei luoghi di lavoro. Lo spirito di collaborazione sembra regnare sovrano. Il resto, di conseguenza.
Nata a metà degli anni '90 come laboratorio, mi spiega Mariuccia, la maglieria ha avuto una sua evoluzione sia in termini di tecniche di lavoro, sia per quanto riguarda i capi prodotti: dai berretti lavorati ai ferri si è passati, nel corso del tempo, a una gamma numerosa di manufatti prodotti a macchina
In questo momento in maglieria lavorano otto persone: chi con borsa lavoro, come Maddalena e Pasqualina, chi con contratto di tirocinio formativo, come Roberta e chi, come Mariuccia che, dopo aver passato la vita come infermiera psichiatrica, ha ripreso in mano la sua vecchia professione, la magliaia, facendo volontariato.
La formazione dura circa un anno e inizia dai concetti di base, il riciclo in primis, che consiste - molto sinteticamente - nelle fasi di raccolta di materiale usato (maglioni, sciarpe, gomitoli di lana, etc...), selezione dello stesso e destinazione d'uso, con tutti i relativi sottoprocessi, lavaggio incluso. Gradatamente le persone imparano quindi
a sfilare i capi di lana, a creare gomitoli di un colore, a melangiare (cioè unire capi di colore diverso per creare un nuovo filo di lana), a usare il bobinatore (che serve per ricoprire il filo di lana di paraffina) per poi arrivare ad usare la macchina per maglieria, con la quale vengono creati capi di diverso genere: berretti, sciarpe, paraorecchie, scaldacollo, manicotti, scaldamuscoli, paraspifferi per finestre.
Il punto di raccolta del materiale di lana usato è la Cooperativa stessa, aperta al pubblico (anche per riparazioni e vendita di prodotti) dalle 9.30 alle 17.30 dal lunedì al venerdì.
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Ubicazione:
Trieste, Italia
giovedì 19 settembre 2013
Aspettando l'alba
Ieri mattina ho finito di leggere “Marta che aspetta l'alba”, un romanzo di Massimo Polidoro (Edizioni PIEMME) che racconta la storia di due donne, Mariuccia e Marta, le cui vite si incrociano in un luogo che tutti, almeno a Trieste, conoscono: il manicomio di San Giovanni, altrimenti detto ospedale psichiatrico provinciale “Andrea di Sergio Galatti”. Un romanzo che commuove, che indigna, che appassiona, che non lascia spazio, per chi lo legge, a nessun alibi, a nessuna giustificazione di qualunquistica indifferenza.
Ho incontrato per la prima volta Mariuccia, una delle due protagoniste del libro, un paio di settimane fa, nella sartoria-maglieria Lister (di cui avrò modo di parlare ampiamente in seguito). Di lei mi ha colpito subito lo sguardo che senza esitazione si fa strada attraverso gli occhi azzurri di una giovane donna che nel 1968 fu assunta in manicomio come infermiera.
Mariuccia di professione faceva la magliaia ma, essendo separata e con una figlia a carico, aveva bisogno di arrotondare così, su suggerimento di un conoscente, presentò domanda all'O.P.P. dove, all'epoca, non era necessaria nessuna preparazione specifica per fare gli infermieri psichiatrici: come riportato nel libro di Polidoro era sufficiente la terza elementare.
E me lo spiega Mariuccia stessa, con il suo cagnolino Sami che dorme sul cuscino sotto alla finestra, il motivo per cui non c'era bisogno di preparazione: compito degli infermieri era di sorvegliare e pulire. In poche parole quella che adesso è una figura professionale con tanto di laurea breve e specializzazione, era allora un mix tra secondino, domestica e badante. Quello che facevano quotidianamente all'M, il padiglione “Tranquille” era di svegliare le pazienti, vestirle, pulirle, lavarle, dar loro da mangiare (rigorosamente con il cucchiaio di plastica), spostarle dal dormitorio al “salone giorno” e viceversa, sorvegliare che non facessero le “matte”. Quando capitava qualcosa, magari anche di poco conto, le pazienti potevano venire legate con camicie di forza oppure rinchiuse in stanzette di due metri per due senza finestre, dietro ordine arbitrario della caposala. In Accettazione le donne più agitate venivano rinchiuse in gabbie, gabbie vere e proprie di cui resta un esemplare, a futura memoria, nel padiglione della Direzione proprio accanto, paradossalmente, a Marco cavallo, il cavallo azzurro di cartapesta, simbolo della Rivoluzione di Franco Basaglia.
Altra mansione non meno importante, direi persino fondamentale, degli infermieri, era quella di tenere a lucido i reparti, dai pavimenti ai grandi lastroni di vetro dei padiglioni, in vista di un'ipotetica, anche se improbabile, visita da parte del primario, che aveva il suo ufficio nel padiglione A, l'Accettazione, quello dove, come racconta Mariuccia, iniziava il calvario.
Le leggi che disciplinavano l'assistenza psichiatrica in Italia in quel periodo erano fondamentalmente due; la legge 14 febbraio 1904, n. 36 "Legge sui manicomi e sugli alienati, disposizioni e cura degli alienati", seguita “ Regolamento attuativo ” del 1909, e la legge 13 marzo 1968, n. 431.
La legge del 1904, in particolare, stabiliva che “debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi.” Stabiliva inoltre che “l''ammissione degli alienati nei manicomi deve essere chiesta dai parenti, tutori o protutori, e può esserlo da chiunque altro nell'interesse degli infermi e della società. Essa è autorizzata, in via provvisoria, dal pretore sulla presentazione di un certificato medico e di un atto di notorietà, redatti in conformità delle norme stabilite dal regolamento, ed in via definitiva dal tribunale in camera di consiglio sull'istanza del pubblico ministero in base alla relazione del direttore del manicomio e dopo un periodo di osservazione che non potrà eccedere in complesso un mese.”
La Legge del 1968 (la cosiddetta legge Mariotti) faceva un passo avanti riconoscendo l'ammissione volontaria all'ospedale psichiatrico, “su richiesta del malato, per accertamento diagnostico e cura, su autorizzazione del medico di guardia”, senza annotazione nel casellario giudiziario, nonché la trasformazione del ricovero coatto in volontario. Istituiva, inoltre, i centri d'igiene mentale su base provinciale.
Di fatto cosa accadeva? Me lo spiega di nuovo Mariuccia. La persona arrivava volontariamente oppure dietro ordinanza dell'autorità giudiziaria al reparto Accettazione. Dopo 24 giorni al massimo di “osservazione”, in base alla decisione del primario, il paziente poteva essere dimesso oppure trasferito in uno dei vari padiglioni presenti nel comprensorio dell'ospedale: Osservazione, Agitati, Tranquilli, Sudici (si, avete capito bene, Sudici), per citarne alcuni. Uomini e donne erano rigorosamente rinchiusi in padiglioni diversi separati dalla strada principale che percorre il Parco di San Giovanni.
Un caso a sé è costituito dal Ralli, il padiglione riservato ai bambini, non solo a quelli che, affetti da problemi cerebrali seri, venivano spediti al manicomio direttamente dall'ospedale infantile Burlo Garofolo, ma anche a figli di famiglie povere o disagiate, orfani, bambini provenienti dalle classi differenziali della scuola elementare.
Quando, ripensando all'orrore del Ralli, domando a Mariuccia cosa direbbe di un'insegnante di scuola elementare che nell'anno 2013 ha osato definire alcuni suoi alunni come “borderline”, “indolenti”, “da tenere sotto ricatto”, mi risponde con una parola: “criminale”.
Criminale, per l'appunto. Come ritengo criminale quello che veniva fatto ai pazienti internati nei vecchi manicomi italiani (e non solo): privati dei loro averi (anche della dentiera perché poteva essere pericolosa per sé e per gli altri) e di tutti i loro diritti civili, erano trattati come corpi vuoti ricoperti da una veste di cotone d'estate e una di flanella d'inverno. Al padiglione M, dove Mariuccia ha lavorato a lungo, la terapia era sempre la stessa: ansiolitico e neurolettico, somministrati dalla caposala. Ma in altri reparti i pazienti venivano sottoposti, più che a terapie, a vere e proprie torture che andavano dallo shock anafilattico, all'elettroshock e alla lobotomia.
Il medico non faceva il giro visite quotidianamente, ma passava di rado, fermandosi a discorrere con la caposala, non certo con le pazienti. Nessuno del personale, racconta Mariuccia, aveva rapporti con le donne ricoverate. Solo di alcune, aggiunge, si conoscevano i nomi. E, commossa, mi racconta la storia di Anna, che ogni giorno, dalla finestra dell'M salutava Carlo, un paziente che lavorava come giardiniere – non pagato va da sé, in nome di quell'ergoterapia che spesso assumeva le vesti dello sfruttamento vero e proprio dei pazienti. Quando, dopo l'arrivo di Basaglia, i reparti furono aperti, i due si incontrarono, si innamorarono e, poi, andarono a vivere insieme.
Ma quella di Franco Basaglia, della sua lotta e della sua rivoluzione è un'altra storia, che è già stata raccontata, e anche bene, da tanti. Quello che invece si conosce meno è il grandissimo travaglio interiore che le persone come Mariuccia hanno vissuto quando Basaglia arrivò e fece loro scoprire che le “statue di cera”, le “cose inanimate” che popolavano l'ospedale psichiatrico erano in realtà delle persone. Alcuni, mi spiega, Mariuccia, non accettarono il cambiamento e preferirono andarsene: di tutti i medici presenti a San Giovanni ne rimasero solamente due. Altri protestarono oppure si diedero a veri e propri atti di sabotaggio, come quello di far sparire tutti i vestiti dal padiglione Sudici.
Mariuccia invece è rimasta, ha lottato ha sofferto e ancora oggi continua a portare avanti il messaggio di Basaglia, con grande coraggio e con grande forza. E non posso che sentirmi onorata di averla conosciuta e anche, permettetemi, un po' commossa.
Se avete voglia di ascoltare Mariuccia e la sua o meglio le sue storie, l'11 ottobre alle 11 di mattina sarà ospite di un programma Rai piuttosto noto (farò un aggiornamento a proposito).
E l'altra protagonista del libro? Marta? Beh, se ne avete voglia, magari aspettando l'alba, potete incontrarla e conoscerla nel libro di Massimo Polidoro, "Marta che aspetta l'alba".
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