Per tutti i fotografi il confronto con altri fotografi è indispensabile. Chi crede di non avere bisogno del giudizio di altri e si accontenta dei "like" sui social network, dei "mi piace" da parte di amici e parenti, del numero di partecipanti alla propria mostra personale, è destinato con tutta probabilità, a percorrere una strada in solitaria, coronata da delusioni dato che, prima o poi, il confronto e i giudizi annessi sono inevitabili a meno che, ad animare il fotografo, non sia la volontà di raccontare una storia e di comunicare un messaggio attraverso il linguaggio fotografico, bensì il semplice desiderio di collezionare immagini.
Per chi non fa collezionismo un'ottima occasione di incontro e di confronto con altri fotografi è costituita dai workshop, cioè dei seminari in cui si studia e approfondisce un tema specifico quale, ad esempio: il fotogiornalismo, il reportage, la fotografia naturalistica, la fotografia di viaggio, il ritratto, etc…
Dato che però i workshop hanno un costo, sia in termini economici, sia in termini di tempo, è necessario, oserei dire indispensabile, usare molto buon senso prima di versare la quota d'iscrizione, per evitare di incorrere in delusioni e insoddisfazioni che si esprimono spesso in osservazioni quali "tempo buttato via", "soldi buttati via", "non ho imparato niente", "è stato inutile", etc..
Molti sono, in questo contesto, gli errori che si possono commettere, innanzitutto quello di farsi ingannare dal nome e dalla notorietà del docente che tiene il seminario. Parlo di errore perché non sempre un bravo fotografo si rivela anche un bravo docente (a tutti sarà capitato all'università di avere come docente "uno dei più grandi studiosi" dell'argomento "x" che però non è assolutamente in grado di comunicare con l'uditorio o con buona parte di esso). E' bene, dunque, non farsi distrarre dalla "pubblicità" e parlare con persone che hanno già avuto modo di conoscere il tal fotografo durante un workshop. E' chiaro che non ci sarà unanimità di vedute (un medico può essere bravo per la persona "x" e può essere pessimo per "y") ma anche qui vige la regola del buon senso: il troppo entusiasta e il troppo deluso non costituiscono i giusti metri di misura. Al riguardo è anche molto utile guardare com'è strutturato il programma: se è sfuggente, poco chiaro, dispersivo, come minimo chi l'ha preparato ha voluto perderci meno tempo possibile e già questo non è un buon indice. Viceversa, un programma ben strutturato, preciso e che gravita solamente intorno al tema del workshop, costituisce indiscutibilmente un buon punto di partenza.
La notorietà del docente può anche trarre in inganno nella misura in cui può distrarre dall'oggetto del workshop. Se ad esempio ci si occupa esclusivamente di fotografia naturalistica e non si ha nessun desiderio di intraprendere un'altra strada, partecipare a un seminario di fotogiornalismo di guerra, solo perché tenuto da un reporter famoso, è assolutamente inutile perché troppa è la differenza tra le due tematiche. Il fotoreporter di guerra parlerà di giubbotto antiproiettile, di sindrome da stress post-traumatico e di regole di sopravvivenza che non si applicano nella savana, a tu per tu con i grandi predatori.
Per evitare questo errore è indispensabile avere ben chiare in mente due cose: il lavoro del fotografo che conduce il workshop e il risultato che si vuole ottenere dal workshop. Oltretutto, se le idee a riguardo non sono chiare, la conseguenza è la totale passività e isolamento in un contesto di elevata interazione tra i soggetti coinvolti, con il risultato di sentirsi un pesce fuor d'acqua che si limita ad ascoltare e a registrare in modo acritico tutte le informazioni trasmesse, nella speranza che prima o poi tornino utili. Per evitare questa situazione è necessario leggere attentamente il programma del workshop, avere (preferibilmente) già un progetto fotografico realizzato o in fase di realizzazione, oppure un impianto di progetto e rispondere a tre semplici domande: "Perché partecipo?" "Perché partecipo a un workshop tenuto proprio dal tal fotografo?" "Cosa mi aspetto, cosa voglio ottenere da questo workshop?"
Il terzo errore è quello di partecipare ad un workshop con l'arroganza del "fotografo arrivato". Qui ci vorrebbe uno psicanalista, a dire il vero, quindi mi limito solo agli effetti palpabili che ha quest'approccio: il disagio totale da parte dei partecipanti (docente incluso) nel vedersi osservati dall'alto in basso. Non si partecipa ad un workshop per mettersi in mostra (esistono le mostre personali, rammento, a questo scopo) bensì per avere un confronto con gli altri, al fine di migliorarsi. Il "fotografo arrivato" farebbe meglio a starsene a casa sua beandosi della propria bravura davanti allo specchio.
Il quarto errore, legato in parte al precedente, è quello di non accettare le critiche o di interpretarle come offese personali. No, non è così. Se il giudizio (che va distinto, come Kant insegna, dall'opinione personale, espressa oggi - povero Kant - dal like di facebook) in merito a una foto, una sua componente o all'editing è negativo ("la foto è bruciata", "l'orizzonte è storto", "il soggetto è troppo spiaccicato al bordo", "il soggetto è troppo scuro", "non è chiaro il messaggio", "non è chiaro il soggetto principale", "la post-produzione andrebbe migliorata per questa e quest'altra ragione", "la composizione andrebbe migliorata per questo e quest'altro motivo", "la foto è descrittiva", "il soggetto è un po' sfocato", "ci sono troppi elementi di disturbo", "la foto di apertura del portfolio non è sufficientemente forte per un concorso", etc…) il docente ha il dovere, in quanto docente, di segnalarlo e lo "studente" deve accettare la critica (sottolineo la parola critica) se vuole migliorarsi. Tanto per sfatare i miti e fare un esempio concreto, prendete in mano il quaderno di italiano della scuola media. Troverete senz'altro delle parole o delle frasi intere sottolineate in rosso in vario modo. A distanza di anni sfido chiunque a pensare che l'insegnante, nell'evidenziare il vostro errore, volesse mancarvi di rispetto e offendervi. E, al contrario, cosa pensereste se l'insegnante quell'errore non lo avesse evidenziato? Ebbene, lo stesso ragionamento vale anche per i workshop di fotografia.
Sintetizzando, per evitare che la partecipazione ad un workshop sia fonte di delusione è necessario:
- conoscere il fotografo che terrà il workshop, sia per quanto riguarda il suo lavoro fotografico, sia per quanto riguarda le sue esperienze precedenti di docenza;
- avere molto ben chiara la ragione della propria partecipazione al workshop;
- avere un progetto (in fase embrionale, di realizzazione, concluso) in modo da disporre di un punto di partenza concreto;
- sentire la necessità e il desiderio di migliorarsi, attraverso il confronto con altri;
- partecipare in modo attivo, con domande e osservazioni mirate, al fine di raggiungere l'obiettivo che ci si era prefissi.
Questo per quanto riguarda gli studenti. Veniamo ora ai docenti, perché il successo o meno di un workshop dipende da tutti gli attori coinvolti. L'errore principale che commettono i fotografi è quello di non scindere la loro professione di fotografo dal ruolo di docente, che il seminario richiede. Questo approccio si esplica soprattutto nell'esporre il proprio lavoro, esagerandone a volte la portata rispetto ai lavori di altri fotografi, senza alcuna finalità didattica. La conseguenza è che il lavoro presentato può assumere, agli occhi dell'uditorio, le vesti del "lavoro per eccellenza", "il lavoro a cui si deve puntare", "il lavoro da emulare". Qui di didattico non c'è nulla: non è con la mera esibizione del proprio lavoro che si forniscono agli altri gli strumenti per riuscire a realizzare un progetto secondo la propria sensibilità, le proprie finalità, il proprio stile. Diversamente, affinché assuma una finalità didattica, il proprio lavoro dovrebbe essere esposto solo come esempio concreto di realizzazione di un progetto, di cui si può parlare estesamente, con cognizione di causa e in modo analitico per la sola ed unica ragione che si è gli artifici di quel lavoro.
Un altro errore didattico è quello di palesare le proprie simpatie o antipatie nei confronti di uno o più partecipanti, con una duplice conseguenza: la prima, quella di demotivare tutti quelli che non sono oggetto di simpatia, creando al contempo false illusioni negli altri; la seconda è quella di mettere in discussione la credibilità del docente stesso, anche in termini di stima e rispetto. Torno all'esempio della scuola media perché tutti ci siamo passati. Posto che gli insegnanti sono esseri umani e posto che non tutti stanno simpatici a tutti, che giudizio conservate di quell'insegnante pieno di belle parole per quei due, tre, mentre gli altri non li considerava nemmeno di striscio? Viceversa, che giudizio conservate di quell'insegnante che aveva sempre una buona parola per tutti, anche per i "peggiori della classe"?
E qui entriamo nel terzo errore che i docenti in generale e i docenti-fotografi, nel caso specifico, possono commettere: quello di essere distruttivi e non costruttivi. Demolire il lavoro di uno studente è la peggior cosa che un insegnante possa fare (parlo da insegnante). Il risultato sarà, con molta probabilità, l'allontanamento definitivo dello studente da quella materia, soprattutto se è giovane e/o inesperto e/o non sufficientemente pronto a incassare il colpo. Didattico è individuare l'errore, segnalarlo e proporre delle soluzioni, non stracciare "il compito in classe" senza nemmeno indicarne le ragioni.
L'insegnamento, a qualsiasi livello, è una cosa seria e per praticarlo è necessario disporre di strumenti didattici appropriati, oltre che di una naturale propensione al rispetto degli altri. Se l'insegnamento è un modo come un altro per sbarcare il lunario, beh, almeno lo si faccia con la dovuta serietà.
Per sintetizzare e per esperienza personale, come docente e come studente, i corsi e i workshop hanno successo se tutti i partecipanti (di qua e di là della "cattedra") hanno le idee chiare, pensano di avere ancora qualcosa da imparare, non hanno paura di mettersi in gioco attraverso il dialogo e il confronto, sono disposti a mettere da parte il proprio ego, sono disponibili a "dare" oltre che a "ricevere".
In questo contesto mi sento di suggerire caldamente, a chi fa reportage o ha il desiderio di farlo o di scoprirlo, il workshop del fotografo pordenonese Pierpaolo Mittica (autore di notevoli lavori su Chernobyl e Fukushima, per citarne solo due) che si terrà i giorni 5-7 dicembre presso la libreria Quo Vadis di Pordenone. Il seminario, organizzato dall'Associazione Bottega Errante, affronta tutti gli aspetti del reportage (la composizione dell'immagine, la preparazione del reportage, l'editing) e dà molto spazio alla lettura del portfolio. Senza tanti giri di parole, costituisce un'ottima occasione di incontro e di confronto.
Mi auguro sinceramente che questo workshop venga portato anche a Trieste dove, ahimé (e lo dico a malincuore) non vedo tutto il fermento di livello medio-alto (e questo vale non solo per la fotografia) che ho avuto modo di scoprire a Pordenone. Questo però è un discorso a parte che affronterò magari in altra occasione.
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