Domenica 15 novembre 2013 al cinema Giotto di Trieste è stato presentato il film "Zoran, il mio nipote scemo", una co-produzione italo-slovena. Presenti in sala il regista, Matteo Oleotto e due degli interpreti: Giuseppe Battiston e la giovanissima Doina Komissarov.
Protagonista del film è Paolo Bressan (interpretato da Giuseppe Battiston), un quarantenne del Goriziano, cinico, bugiardo e dedito all'alcool che, alla morte della zia slovena Anja Kovač "riceve in eredità" il nipote della stessa, Zoran Špacapan (interpretato da Rok Prašnikar), un ragazzo molto naif, ma estremamente abile nel gioco delle freccette, destinato inizialmente a passare i suoi giorni in una casa famiglia in Slovenia, in compagnia del suo cane di porcellana, Helmut.
La trama del film è nota e si può trovare ovunque su Internet e sulla carta stampata. Lo stesso per quanto riguarda il cast e i personaggi, quindi non mi voglio soffermare troppo su questi punti. Ciò che mi preme invece è mettere in risalto una serie di elementi del film che, a mio parere, lo fanno emergere brillantemente “dal mucchio” delle innumerevoli produzioni cinematografiche in circolazione.
Ambientato interamente nel Goriziano, il lungometraggio di Oleotto riesce a descrivere con dovizia di particolari, con ironia e con molta eleganza nello stile l'atmosfera che si respira in una zona depressa di provincia, forse più “al confino” che “al confine”, come di fatto il Goriziano è. Qui le due lingue e culture protagoniste (quella italiana e quella slovena) si tengono a distanza nei modi che ben conosciamo: l'uso non certo elogiativo del termine “jugo” (diminutivo di Jugoslavija) per indicare la Slovenia, gli sloveni, la lingua slovena; l'impiegata slovena che parla in sloveno ad un italiano; la storpiatura dei nomi da parte italiana (Anja diventa Anna, Zoran diventa Zagor) ma anche da parte slovena (Bressan diventa Brešan).
Ma questa è solo una faccia della medaglia, quella più superficiale. In realtà nel film, equilibrato specchio della vita di tutti i giorni, le due culture si mescolano, come nel caso della ex moglie di Paolo (interpretata da Marjuta Slamič) che di nome fa Stefania ma di cognome Marinčič e di Paolo stesso che, oltre ad aver sposato una donna slovena, ha in Slovenia una zia, Anja, che gli portava i wafer quando era piccolo.
A simboleggiare questa mescolanza culturale interviene anche il coro di Doberdò del Lago che canta in dialetto goriziano, in friulano ed, infine, anche in sloveno, quando Zoran interpreta una canzone dal titolo “Oče naš” (Padre nostro) dedicandola alla nonna morta.
Inequivocabile poi, in questo contesto, il messaggio che il film vuole trasmettere nel momento in cui Paolo si reca in Slovenia a casa della zia morta e lo fa, non attraversando uno degli ex valichi confinari della zona, bensì percorrendo in barca l'Isonzo (Soča), il fiume che unisce le genti che vivono su entrambe le sue sponde.
Un film politically correct? No, nella maniera più assoluta. Il senso di disagio e anche di repulsione che suscitano i frequentatori abituali di osterie traspare in tutta la sua crudezza nel protagonista, Paolo, che riversa tutta la sua insoddisfazione personale nel vino, nelle menzogne, nel disprezzo per chi gli sta intorno, come Ernesto (interpretato da Riccardo Maranzana), il collega balbuziente e credente, cui riesce a dire: “Se sei mona e credi in Dio crederai nel Dio dei mona” (che tradotto in italiano significa “se sei un cretino e credi in Dio crederai nel Dio dei cretini).
Antagonista al personaggio di Paolo è ovviamente Zoran, il nipote “scemo” che ricorda molto da vicino “L'idiota” di Fedor Dostoevskij ma con le debite varianti locali, dove all'origine slovena e contadina della famiglia fa da contraltare l'uso, da parte del ragazzo, di un italiano aulico appreso leggendo due romanzi “capolavori” del tutto sconosciuti ("Lacrime di fanciulla" di Enrico Kosulich e "Lampi sull'Isonzo" di Giulio Previati).
L'umanità del ragazzo, la sua semplicità, la sua apertura nei confronti del mondo e la benevolenza che riceve dagli altri sono in totale antitesi con il brutale cinismo di Paolo che tiene con sé il nipote solo per sfruttarne l'abilità nel gioco delle freccette e farsi i soldi e che, in un crescendo di momenti drammatici, riesce a farsi malvolere da tutti quelli che gli stanno intorno. Questo fino alla crisi finale, l'infarto, che lo colpisce dopo una bevuta oltremisura, reazione compulsiva al rifiuto da parte della ex moglie. Quest'episodio catartico, anche grazie alla presenza di Zoran, permette a Paolo di rimettersi in discussione e di uscire dal circolo vizioso in cui si era ridotta la sua vita di bevitore d'osteria.
E proprio l'osteria, quella di Gustino (interpretato da Teco Celio), è l'ultimo, grande protagonista del film e non solo una semplice ambientazione. Un'osteria dal tipico volto goriziano, con le botti di vino accatastate, le uova sode sul bancone, i tavoli e le sedie dimessi, i clienti abituali che passano il loro tempo a giocare a carte e a ubriacarsi di vino bianco o di Terrano (vino rosso carsico dal sapore asprigno e fruttato). Qui, la scenografia utilizzata è molto più prossima al teatro che al cinema, quasi a voler simboleggiare la centralità del luogo, “il teatro”, appunto, in cui e attorno a cui gravitano i personaggi e le loro vicende. La presenza, in questo contesto, di Ariella Reggio (che interpreta Clara, la mamma dell'oste Gustino), non fa che accentuare questa dimensione.
Per quanto riguarda la fotografia, l'utilizzo prevalente di primi piani, di cui almeno una parte della filmografia abbonda in modo spesso insensato e controproducente, in questo caso non è andato a scapito della pellicola, grazie soprattutto all'espressività degli artisti, Battiston e Prašnikar in modo particolare, e grazie all'ottima sceneggiatura che consente allo spettatore di comprendere l'ambiente circostante senza bisogno di inquadrature più ampie.
Concludo con un caldo invito ad andare a vedere questo lungometraggio, suggerimento rivolto sia a chi vive tra Italia e Slovenia ma anche e soprattutto agli altri, affinché si facciano un'idea del Goriziano e di alcuni suoi tratti distintivi. Aggiungo inoltre un'osservazione che mi sta a cuore: se c'è un lavoro che riesce davvero a uscire dagli stereotipi e a presentare, seppur ovviamente in forma di fiction cinematografica, quella realtà che spesso viene falsata ad arte dalla politica con la p minuscola e dalle sue conseguenti strumentalizzazioni da "curva sud", questo è proprio "Zoran, il mio nipote scemo", a cui mi sento quindi di augurare tutto il successo che si merita.