domenica 28 luglio 2013

sabato 27 luglio 2013

Bendzo e Carolina

Bendzo si chiama così perchè suona il banjo. Lui e sua moglie Carolina fanno i clown, o meglio lo facevano, perché Bendzo ha difficoltà a parlare, a causa di un ictus, e Carolina non sta proprio tanto bene in questo momento: è ricoverata al reparto cure intensive dell'unità psichiatrica del Klinički Centar di Sarajevo, un posto che non avrei mai voluto vedere in vita mia.
Mi sarebbe davvero piaciuto fare delle foto all'interno, per documentare lo stato di totale abbandono e sporcizia in cui vivono i pazienti, ma Bendzo mi ha pregato di non farlo, così ho lasciato perdere. Poi altri mi diranno che il posto è pieno di telecamere: "bene", mi dico, "almeno qualcosa funziona in quello che assomiglia molto ai manicomi vecchio stile che avevamo anche in Italia", molto diverso dall'ospedale psichiatrico di Jagomir, dove sono andata già due volte e dove si respira aria molto diversa e sicuramente molto migliore.
Carolina è completamente persa, vive in un mondo tutto suo, continua ad accendersi sigarette una dietro l'altra e, quando ha finito, va dagli altri pazienti presenti nel parlatorio e gliene offre, anche se gli altri non vogliono. E continua così, per mezz'ora: avanti e indietro, seduta e in piedi, senza pace.
Ilija, un amico di famiglia, mi spiega che è ricoverata lì da tre mesi e che non c'è stato nessun miglioramento. Ma non stento a crederlo, con tutta sincerità. "Se non migliora rischia di essere dichiarata cronica e di essere spedita nell'unità dei cronici", cioè, per farla breve, in un manicomio vero e proprio. In tal caso, continua Ilija, le toglierebbero anche la pensione e per Bendzo i problemi diventerebero enormi, visto che entrambi hanno la pensione minima.
"Come mai" chiedo a Ilija, "non l'hanno ricoverata a Jagomir?" "Perché dipende dal giorno della settimana in cui ti prende la crisi: se hai fortuna vai a Jagomir, in caso contrario a Koševo".
Ho difficoltà a capire Bendzo. L'ictus lo ha colpito, oltre che a una mano e a un piede, anche nella parola. Quindi di lui non posso dire molto se non che, quando siamo usciti dall'unità psichiatrica, era davvero disperato. Così il giorno dopo, per tirarlo su di morale, ho organizzato una cena, a base di pasta al pomodoro con parmigiano. Si è mangiato ben due porzioni, tanto gli piaceva. E ha apprezzato anche il dolce, preparato dalla mia amica Dubravka, che era lì con suo marito e il figlio.
Fra tutte le storie che mi hanno incontrata qui, credo che questa sia in assoluto la più triste e per questo non riesco ad aggiungere altro.


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giovedì 25 luglio 2013

Caffe Tito

A Sarajevo non ho trovato nessuno che criticasse la vecchia Jugoslavija socialista né tantomeno il suo leader, Josip Broz Tito. Così oggi faccio una capatina allo storico "caffe Tito", ritrovo di molti nostalgici e dove sono custodite sculture, cartoline, fotografie, quadri raffiguranti Tito nonché molti cimeli della guerra di liberazione che in Jugoslavija fu capeggiata da Tito stesso. Ma questo è un argomento complesso e meriterebbe molto più spazio. Mi limito pertanto a un modesto "Živel Tito", con una Cockta ghiacciata in mano.

caffe Tito Sarajevo
caffe Tito Sarajevo
caffe Tito Sarajevo
caffe Tito Sarajevo
caffe Tito Sarajevo
caffe Tito Sarajevo
caffe Tito Sarajevo
caffe Tito Sarajevo
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martedì 23 luglio 2013

Centar Vladimir Nazor

Tutto è iniziato per caso. Sono in centro, vedo una donna con un ragazzino e le domando se mi può indicare un negozio per bambini, non troppo costoso. Molto gentilmente mi accompagna e mi aiuta a scegliere una maglietta per una bimba di tre anni. Da lì nasce la mia amicizia con Dubravka, una donna speciale, incredibilmente piena di energia e di voglia di fare, che conosce benissimo la lingua italiana, avendo vissuto in Italia parecchi anni. Sorseggiando il caffè mettiamo a confronto le esperienze e le racconto cosa sto facendo a Sarajevo. Fra le altre cose mi parla di una scuola molto speciale, mi propone di accompagnarla e di parlare con il direttore. Accetto volentieri e così ieri mattina, alle 10.00 ci siamo ritrovate alla scuola Vladimir Nazor di Sarajevo, insieme con il prof. Zulfo Ahmetovic.
Zulfo mi racconta che la scuola, pubblica, è sorta nel 1968 e ospita 172 bambini e ragazzi, di età compresa tra i due/tre e i diciotto, affetti da vari problemi di deficit cognitivo, quali l'autismo (10%) e la sindrome di down (25%). Dispone di un asilo, di una scuola elementare e di una scuola superiore.
Centar Vladimir Nazor Sarajevo
A seconda della gravità del problema i ragazzi sono suddivisi in classi diverse e seguono un programma diverso: quelli affetti da problemi più gravi sono raggruppati in classi da 4 a 6 alunni e stanno a scuola anche al pomeriggio (per fare riabilitazione e altre attività), gli altri in classi da 6 a 9 e seguono un orario normale di lezione. Ci sono inltre 15-20 allievi che non possono lavorare in gruppo e, quindi, vengono seguiti individualmente.
Il problema principale, mi dice il direttore, è costituito dal fatto che spesso i genitori (gli unici che possono decidere se mandare il figlio alla scuola normale o alla scuola speciale) hanno difficoltà ad accettare che il figlio o la figlia soffrono di deficit cognitivo. Pertanto i ragazzi possono arrivare alla scuola Nazor solo molti anni dopo che il problema è stato diagnosticato, con le ovvie complicazioni che ne conseguono. L'integrazione nella scuola normale è un processo ancora a venire perchè, fondamentalmente, non ci sono le risorse sufficienti.
Centar Vladimir Nazor Sarajevo
Risorse che mancano all'istituto stesso. A tutt'oggi non si sa ancora se il personale esterno (logopedisti, psicologi, musicoterapeuti) sarà riconfermato a settembre. "Sopratutto i ragazzi autistici", mi dice, "hanno bisogno di moltissima assistenza perché hanno problemi di comunicazione e socializzazione". Ma le risorse non ci sono.
Grazie alle donazioni la scuola è riuscita a procurarsi un pulmino, un telaio per le attività di laboratorio e altra strumentazione utile per le attività didattiche e riabilitative. Ma è molto poco rispetto a quanto occorre alla scuola, specie in termini di personale specializzato.

Centar Vladimir Nazor Sarajevo
Centar Vladimir Nazor Sarajevo
Centar Vladimir Nazor Sarajevo
Centar Vladimir Nazor Sarajevo
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domenica 21 luglio 2013

Workshop Foundry Photojournalism

Rieccoci, dopo qualche giorno di pausa, o meglio di duro lavoro. Il workshop (http://www.foundryphotoworkshop.org) è iniziato domenica 14 luglio e si è concluso ieri con una festa finale alla pivovara (birreria) di Sarajevo, dove si produce la "sarajevsko pivo" e dove si mangia discretamente bene a un prezzo decente (14 euro per un piatto e due birre grandi). Sono molto soddisfatta sia del workshop che dell'esito finale inaspettato e ringrazio tantissimo Adriana, la mia insegnante, per tutto quanto. Ma, bando a ciance, qui mi voglio limitare solamente ad alcuni suggerimenti pratici per coloro i quali hanno voglia di partecipare a un workshop di fotogiornalismo in futuro. Ed è soprattutto un promemoria per me stessa.
0) Se il workshop si tiene in un paese che non è il proprio documentarsi con molto anticipo. E quando dico documentarsi non intendo guardare la bbc o rai1 o leggere "Repubblica" piuttosto che "il fatto quotidiano". Vuol dire leggere libri, leggere su Internet le testimonianze delle persone che ci sono state, preferibilmente del luogo, meno magari le versioni ufficiali (normalmente una).
1) Imparare, se possibile, la lingua del posto, fondamentale per comunicare con le persone e, se il workshop è internazionale, imparare l'inglese.
2) Avere un progetto solido e, allo stesso molto concreto, una piccola storia significativa da raccontare, non un concetto astratto generale che, se va bene nel medio-lungo periodo, nello spazio di cinque giorni non porta invece da nessuna parte. In questo contesto, avere anche una seconda o terza opzione, se ci si rende conto che la prima non funziona per un motivo o per l'altro.
3) Avere bene in mente che ogni singola foto deve raccontare la storia nel modo più completo possibile, quindi usare un'ottica appropriata come il 35mm (ma questo è molto personale)
4) Di fronte a una situazione problematica non aver timore di tirarsi indietro. I fotografi non sono eroi, sono fotografi. E non sono nemmeno sciacalli che mettono in difficoltà altre persone per raggiungere i propri scopi personali.
5) Scattare molto perchè il tempo è poco e perchè non c'è la certezza di poter tornare "sul luogo del delitto". Questo non significa scattare tutto quello che passa davanti agli occhi, ma fare più scatti di una situazione interessante, di varie situazioni interessanti. Ovvio, quindi, avere una batteria di ricambio e schede di memoria in abbondanza (più schede con poca memoria, in modo da evitare di perdere tutto il lavoro se una delle schede si danneggia)
6) Ascoltare con molta attenzione i suggerimenti dell'insegnante. Il fatto di fotografare da 1-10-100 anni non significa aver capito tutto della fotografia, nè che esiste un unico punto di vista in materia. Contemporaneamente, guardare con attenzione il lavoro degli altri, anche se non corrisponde al proprio genere e se il soggetto è diverso. Guardando le fotografie degli altri si impara moltissimo.
7) Non buttare via le foto tecnicamente imperfette (rumore, sfocature, mossi, muri storti, etc).... MAI e quando dico MAI, dico MAI.
8) Vestirsi e atteggiarsi in maniera appropriata, evitare la spacconeria, la saccenza, il manierismo, l'arroganza, la scortesia . "Io sono qui per raccontarti non per raffigurare i miei fatti personali", questo è il messaggio chiaro che deve essere trasmesso al soggetto.
9) Se il soggetto è una persona che vive da sola, cercare di non fotografare solo lui o lei, diventa noioso e ripetitivo. Concentrarsi su altri dettagli, sugli oggetti che la circondano, sulle persone che frequenta, sui vicini di casa, sull'ambiente, in modo da riuscire a dare un quadro generale della situazione.
10) In caso di difficoltà rivolgersi all'insegnante senza esitazione (non è lì per giudicare la nostra capacità di risolvere i problemi e, magari, ha tanta di quell'esperienza e di situazioni analoghe alle spalle che è sicuramente la persona più adatta cui far riferimento).
11) Per quanto possa essere difficile in certi casi (e lo è davvero) cercare di non lasciarsi coinvolgere più del necessario, solo quel tanto che basta per capire le cose. Se la situazione è molto pesante, dopo aver concluso il lavoro, trovare una valvola di sfogo, che sia pure quella di lavarsi le mutande, non importa. L'importante è che la mente si liberi.

Suggerimenti per i viaggiatori in generale:
a) se volete regalare qualcosa da mangiare alle famiglie povere che vi accolgono nella loro casa e vi offrono anche il caffè, NON portate biscotti e altri dolci, ma piuttosto frutta, crackers, latte in abbondanza. I dolci fanno venire la carie, i poveri non hanno soldi per il dentista;
b) se si viene minacciati da un gruppo di cani randagi NON scappare, ma fermarsi immediatamente, guardare da un'altra parte e muoversi molto lentamente, non appena la minaccia si fa più lontana (ma porca miseria che strizza sapete dove...);
c) in zone di guerra, o dove c'è stata una guerra, NON andare in mezzo ai prati e ai boschi (ci potrebbero essere mine), ma rigorosamente attenersi alle strade asfaltate e ascoltare le indicazioni delle persone del luogo. Nel dubbio NON farlo;
d) avere fiducia nel genere umano: è molto meglio di quanto si possa pensare stando rinchiusi fra le pareti della propria casa guardando la televisione.

lunedì 15 luglio 2013

Waste pickers a Sarajevo

A Sarajevo non ci sono i contenitori per il vetro, la carta, la plastica, ma la raccolta differenziata si fa anche qui. Sì, però al contrario. B., 38 anni, di Priština, e la moglie D., nata a Kosovska Mitrovica, di 35 anni, profughi dal Kosovo, si guadagnano da vivere frugando fra i rifiuti, alla ricerca di plastica, vetro, ferraglia, vestiti usati, per poterli poi rivendere da qualche parte.
Li incontro a Koševo alle nove e mezza di sera, mentre sono fermi sul marciapiede, con il carrello del supermercato, pieno di cianfrusaglie: un'antenna della tv rotta, jeans, un phon, un ammasso che sembra tanto polistirolo. B. parla un po' d'italiano perchè ha girato l'Italia in lungo e in largo ma, alla fine, è stato cacciato con regolare foglio di via. Vivono in una casa di L. K., con quattro figli e due cani. Orgogliosamente B. mi mostra la foto del figlio maschio sul cellulare.
Il giorno successivo vado a trovarli. Ho appuntamento con loro alle 3 circa. Nell'attesa approfitto per fare due scatti alla casa chiusa con il lucchetto in cui, mi dicono i vicini, vivono.
Dopo un'ora e mezza di attesa non vedo arrivare nessuno. "Probabilmente", mi dico, "saranno in giro a frugare fra i rifiuti, come fanno tutti i santi giorni. Ma di lì a poco mi vengono incontro tre bambini e mi fanno entrare in casa: i genitori li avevano avvisati che sarei venuta.
Cammino sui grossi tappeti di lana nella cucina e, di tanto in tanto, sento il piede che affonda con la sensazione quasi di sprofondare. Nella casa non c'è riscaldamento e nemmeno acqua. "Per fortuna", mi dice D., la mamma, "una vicina ci permette di riempire le taniche che poi utilizziamo per lavarci, per cucinare, per bere, per lavare i piatti." Le poche volte che cucinano usano uno spaghert fuori casa. Normalmente comprano qualcosa di pronto da mangiare, perché costa meno. Mamma e papà dormono in cucina, mentre i bambini in salotto.
B. e D. non sanno né leggere né scrivere: non sono mai andati a scuola. Come dicevo prima si guadagnano da vivere raccattando cose nei bottini della spazzatura. "Il ferro", dice B, "mi viene pagato 1 marco per 10 chilogrammi." Una volta a settimana un gruppo di persone arriva a casa loro per acquistare il ferro. Non ricevono nessun sussidio da parte dello stato, se non 50 marchi (25 euro) al mese per la bambina più piccola. D. e i figli godono dello status di rifugiati politici mentre B. non ce l'ha, per motivi che non posso spiegare. La figlia più grande ha sedici anni ed è già sposata, ma vive con i genitori, non con il marito. Gli altri bambini vanno tutti a scuola, eccetto la più piccola, che ha quattro anni e che mi mostra la foto di classe della sorella. Quando i genitori sono al lavoro i bambini se ne stanno soli a casa, in compagnia dei cani: Simba e Kimba.

Si è ormai fatto tardi e decido di andare via, con il proposito di ritornare il giorno successivo...

Torno a casa di B. e D. intorno alle 10 di mattina. La casa non è chiusa con il lucchetto, segno che - mi dice una loro amica - sono a casa ma stanno ancora dormendo. La donna bussa ripetutamente finché D., ancora assonnata, apre la porta. Anche le bambine sono in piedi mentre il papà e il fratello dormono in camera da letto.
Mentre la mamma prepara il caffè converso un po' con l'amica di famiglia, Almedina, e vengo a sapere che anche lei, insieme con il marito, si guadagnano da vivere frugando fra le immondizie. Non vivono a Sarajevo, bensì a Iljaš, in una casetta in affitto in aperta campagna. Ogni giorno si fanno 30, 40 chilometri per andare a cercare fra i rifiuti. Ma questa è un'altra storia.
Oggi è il giorno in cui un gruppetto in furgone viene a comprare il materiale raccolto faticosamente da B. e D. E proprio questo gruppetto, appena mi vede, inizia a fare domande direttamente a me, con un fare molto poco rassicurante. Su invito di D. mi astengo dal fare fotografie (a parte un paio rubate) ed entro in casa con lei. Avrei voluto continuare a seguire la famiglia di B. e D., ma sempre a causa di questo gruppetto non è stato possibile. Pare abbia fatto pressioni perché me ne stessi alla larga. Le ragioni le posso solo immaginare.

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